lunedì 27 febbraio 2017

Fai bei sogni (Fai bei sogni, 2016) di Marco Bellocchio

Fai bei sogni” è la frase di congedo pronunciata, di notte, da una giovane madre mentre rimbocca le coperte al suo unico figlio, Massimo, di nove anni. Dopo quella frase la donna muore in circostanze poco chiare e l’infanzia e la vita di Massimo resteranno segnate per sempre dal peso di quell’assenza e dall’alone di mistero che ha sempre avvolto, nella sua memoria, quel traumatico distacco. Siamo nella Torino di fine anni ’60, dove Massimo crescerà tra un padre anaffettivo, la passione per il Torino calcio e la costante ricerca negli occhi della gente di quella madre perduta, prima di diventare un affermato giornalista. Una volta adulto egli decide di vendere la casa dei genitori in cui è cresciuto, ma, nella dolorosa operazione di catalogazione di tutti i ricordi di una vita, riaffioreranno, laceranti, le ferite del passato e il nostro dovrà decidersi, infine, ad affrontarle a viso aperto. Dall’omonimo romanzo autobiografico di Massimo Gramellini, vicedirettore de “La Stampa”, Bellocchio ha tratto un cupo e malinconico dramma raffreddato sul tema dell’assenza, della separazione e di come i traumi infantili segnano la nostra vita in maniera indelebile. La scelta di un regista ribelle, anticonformista e allegorico come  Marco Bellocchio, di adattare un’opera letteraria di grande successo e basata su sentimenti “semplici” come quella di Gramellini, ha inizialmente suscitato non poche perplessità nei critici italiani. Ma tutti i timori sono stati perentoriamente spazzati via da questo film magistrale raccontato con la densa efficacia del narratore di razza. Un film sapientemente costruito a due livelli costantemente intervallati: il passato e il presente, ovvero l’infanzia del protagonista (raffigurata come una favola nera in stile horror gotico, tramite i richiami a Belfagor e Nosferatu) e l’età adulta (che ha i tratti di un’indagine analitica alla ricerca di sé in un groviglio spinoso di ricordi che hanno assunto i tratti dell’ossessione). Nel costante rapporto simbiotico tra le due parti narrative, le emozioni fluiscono liberamente con un moto osmotico, generando un magma di pulsioni e sentimenti contrastati e contrastanti, una sorta di analisi a cuore aperto sulla difficile elaborazione interiore di un dolore. Senza mai andare sopra le righe o alzare la voce, l’autore ci accompagna, con tono sommesso, in questo sofferto viaggio, tra patema e nostalgia, al fianco del suo protagonista, ben interpretato da un intenso Valerio Mastandrea, a cui si affiancano Bérénice Bejo, Guido Caprino e Miriam Leone. E nella puntigliosa descrizione ambientale di una Torino sabauda, grigia, “falsa e cortese”, Bellocchio si concede anche il lusso di un inserto surreale (lo straniante incontro con il faccendiere di Fabrizio Gifuni), un momento magico (la lezione nel planetario del saggio professore di Roberto Herlitzka, attore “feticcio” del regista), uno scherno satirico (l’accenno alla retorica nell’accorata lettera pubblicata da Massimo sulle colonne de “La Stampa”), un ricordo dolce amaro (praticamente tutte le sequenze dell’infanzia del protagonista). Con il saldo equilibrio della maturità artistica e con la libertà formale del ribelle pacificato, il grande regista di Bobbio fa i conti, ancora una volta, con i temi cardine della sua estetica: il rapporto madre-figlio, il male di vivere, la fede religiosa, i cambiamenti sociali del “belpaese”. E, in questo modo, riesce a sublimare, interiorizzare e far propria persino un’opera autobiografica così profondamente sentita come quella di Gramellini, congedandosi con un memorabile epilogo magniloquente che chiude idealmente il cerchio emotivo della vicenda attraverso un delicato insieme di assonanze metaforiche: la sparizione e il nascondino, la dolce culla della memoria e la scatola di cartone.

Voto:
voto: 4/5

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