“Fai bei sogni” è la frase di congedo
pronunciata, di notte, da una giovane madre mentre rimbocca le coperte al suo
unico figlio, Massimo, di nove anni. Dopo quella frase la donna muore in
circostanze poco chiare e l’infanzia e la vita di Massimo resteranno segnate
per sempre dal peso di quell’assenza e dall’alone di mistero che ha sempre
avvolto, nella sua memoria, quel traumatico distacco. Siamo nella Torino di
fine anni ’60, dove Massimo crescerà tra un padre anaffettivo, la passione per
il Torino calcio e la costante ricerca negli occhi della gente di quella madre
perduta, prima di diventare un affermato giornalista. Una volta adulto egli
decide di vendere la casa dei genitori in cui è cresciuto, ma, nella dolorosa
operazione di catalogazione di tutti i ricordi di una vita, riaffioreranno,
laceranti, le ferite del passato e il nostro dovrà decidersi, infine, ad
affrontarle a viso aperto. Dall’omonimo romanzo autobiografico di Massimo
Gramellini, vicedirettore de “La Stampa”, Bellocchio ha tratto un cupo e
malinconico dramma raffreddato sul tema dell’assenza, della separazione e di
come i traumi infantili segnano la nostra vita in maniera indelebile. La scelta
di un regista ribelle, anticonformista e allegorico come Marco Bellocchio, di adattare un’opera
letteraria di grande successo e basata su sentimenti “semplici” come quella di Gramellini,
ha inizialmente suscitato non poche perplessità nei critici italiani. Ma tutti
i timori sono stati perentoriamente spazzati via da questo film magistrale
raccontato con la densa efficacia del narratore di razza. Un film sapientemente
costruito a due livelli costantemente intervallati: il passato e il presente, ovvero
l’infanzia del protagonista (raffigurata come una favola nera in stile horror
gotico, tramite i richiami a Belfagor e Nosferatu) e l’età adulta (che ha i
tratti di un’indagine analitica alla ricerca di sé in un groviglio spinoso di
ricordi che hanno assunto i tratti dell’ossessione). Nel costante rapporto
simbiotico tra le due parti narrative, le emozioni fluiscono liberamente con un
moto osmotico, generando un magma di pulsioni e sentimenti contrastati e
contrastanti, una sorta di analisi a cuore aperto sulla difficile elaborazione
interiore di un dolore. Senza mai andare sopra le righe o alzare la voce,
l’autore ci accompagna, con tono sommesso, in questo sofferto viaggio, tra
patema e nostalgia, al fianco del suo protagonista, ben interpretato da un
intenso Valerio Mastandrea, a cui si affiancano Bérénice Bejo, Guido Caprino e Miriam
Leone. E nella puntigliosa descrizione ambientale di una Torino sabauda,
grigia, “falsa e cortese”, Bellocchio
si concede anche il lusso di un inserto surreale (lo straniante incontro con il
faccendiere di Fabrizio Gifuni), un momento magico (la lezione nel planetario
del saggio professore di Roberto Herlitzka, attore “feticcio” del regista), uno
scherno satirico (l’accenno alla retorica nell’accorata lettera pubblicata da
Massimo sulle colonne de “La Stampa”), un ricordo dolce amaro (praticamente
tutte le sequenze dell’infanzia del protagonista). Con il saldo equilibrio
della maturità artistica e con la libertà formale del ribelle pacificato, il
grande regista di Bobbio fa i conti, ancora una volta, con i temi cardine della
sua estetica: il rapporto madre-figlio, il male di vivere, la fede religiosa, i
cambiamenti sociali del “belpaese”. E, in questo modo, riesce a sublimare,
interiorizzare e far propria persino un’opera autobiografica così profondamente
sentita come quella di Gramellini, congedandosi con un memorabile epilogo
magniloquente che chiude idealmente il cerchio emotivo della vicenda attraverso
un delicato insieme di assonanze metaforiche: la sparizione e il nascondino, la
dolce culla della memoria e la scatola di cartone.
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