mercoledì 15 febbraio 2017

American Pastoral (American Pastoral, 2016) di Ewan McGregor

Newark, anni ’60: Seymour Levov, detto lo “svedese”, è il fortunato rampollo di un’agiata famiglia ebrea della middle class americana, che ha prosperato e messo radici nel New Jersey attraverso l’oculata gestione di una fabbrica di guanti. Giovane, piacente, idolo locale per le sue imprese sportive, sposato con la sensuale Dawn (ex reginetta a un concorso di bellezza), Seymour è un cittadino modello amato e rispettato dalla sua comunità, l’incarnazione stessa del Sogno Americano. Ma la vita perfetta dei Levov sarà sconvolta da una bufera improvvisa quando la loro unica e adorata figlia Merry, ragazza problematica affetta da balbuzie, si farà coinvolgere dai violenti movimenti di protesta giovanile di fine decennio, verrà accusata di un sanguinoso attentato dinamitardo e sceglierà di sparire, imboccando la pericolosa via della lotta clandestina. Intenso dramma familiare diretto dall’esordiente attore scozzese Ewan McGregor, che si ritaglia anche il ruolo del protagonista principale. E’ tratto del celebre romanzo omonimo di Philip Roth, che gli ha fatto vincere l’ambito Premio Pulitzer nel 1998. La regia di McGregor è accorta e compassata (più per il timore reverenziale dell’illustre ispirazione che per cifra stilistica), la ricostruzione storico ambientale dei 60’s è puntigliosa e convincente, la fotografia di Martin Ruhe e la colonna sonora di Alexandre Desplat sono più che dignitose. La prova recitativa del cast è di buon livello, specialmente per le due protagoniste femminili (Jennifer Connelly e Dakota Fanning) che danno vita ai due personaggi più complessi, ambigui, sfaccettati e interessanti. Appare invece un po’ ingessato e monocorde McGregor nel ruolo dello “svedese”, con un’interpretazione per molti versi affine a quella da lui fornita nel Big Fish di burtoniana memoria. Ma dove il film delude ampiamente è nell’approccio narrativo (e quindi nella sceneggiatura) che lima, riduce e mortifica il potente respiro storico metaforico del romanzo come grande parabola sulla fine del  Sogno Americano. La messa in scena timidamente compita operata da McGregor si sofferma essenzialmente sul dramma familiare e sulla monolitica dedizione dello “svedese” al suo destino di uomo tutto d’un pezzo. Peccato che vengano smarriti quasi del tutto i risvolti storici, le interconnessioni tra la disgregazione della famiglia e il crollo dell’utopia dell’America come terra promessa e “paradiso” delle opportunità, e persino il travagliato rapporto padre figlia si riduce a frettolosi momenti di dozzinale sentimentalismo. Lo stesso dicasi per la descrizione sommaria del profondo disagio giovanile che fu alla base di quelle rivolte sociali e politiche che infiammarono il mondo occidentale dal 1968 fino alla prima metà degli anni ’70, abbracciando le cause del pacifismo, dei diritti civili e dell’emancipazione sessuale come paravento di un’intrinseca ferocia interiore troppo a lungo covata nei riguardi di un modello patriarcale conformista e fasullo, incapace di adeguarsi alle esigenze delle nuove generazioni. In mani ben più esperte e capaci (ad esempio sarebbe stato un soggetto perfetto per Paul Thomas Anderson) poteva essere un capolavoro alla stregua del fortunato romanzo ispiratore. Completano il cast Rupert Evans, David Strathairn e Valorie Curry, che ci regala una sequenza “bollente” che mette a dura prova la morigerata graniticità dello “svedese” (e del film).

Voto:
voto: 3/5

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