Newark,
anni ’60: Seymour Levov, detto lo “svedese”, è il fortunato rampollo di
un’agiata famiglia ebrea della middle
class americana, che ha prosperato e messo radici nel New Jersey attraverso
l’oculata gestione di una fabbrica di guanti. Giovane, piacente, idolo locale
per le sue imprese sportive, sposato con la sensuale Dawn (ex reginetta a un
concorso di bellezza), Seymour è un cittadino modello amato e rispettato dalla
sua comunità, l’incarnazione stessa del Sogno Americano. Ma la vita perfetta
dei Levov sarà sconvolta da una bufera improvvisa quando la loro unica e
adorata figlia Merry, ragazza problematica affetta da balbuzie, si farà
coinvolgere dai violenti movimenti di protesta giovanile di fine decennio,
verrà accusata di un sanguinoso attentato dinamitardo e sceglierà di sparire, imboccando
la pericolosa via della lotta clandestina. Intenso dramma familiare diretto
dall’esordiente attore scozzese Ewan McGregor, che si ritaglia anche il ruolo
del protagonista principale. E’ tratto del celebre romanzo omonimo di Philip
Roth, che gli ha fatto vincere l’ambito Premio Pulitzer nel 1998. La regia di McGregor
è accorta e compassata (più per il timore reverenziale dell’illustre
ispirazione che per cifra stilistica), la ricostruzione storico ambientale dei
60’s è puntigliosa e convincente, la fotografia di Martin Ruhe e la colonna
sonora di Alexandre Desplat sono più che dignitose. La prova recitativa del
cast è di buon livello, specialmente per le due protagoniste femminili (Jennifer
Connelly e Dakota Fanning) che danno vita ai due personaggi più complessi, ambigui,
sfaccettati e interessanti. Appare invece un po’ ingessato e monocorde McGregor
nel ruolo dello “svedese”, con un’interpretazione per molti versi affine a
quella da lui fornita nel Big
Fish di burtoniana memoria. Ma dove il film delude ampiamente è
nell’approccio narrativo (e quindi nella sceneggiatura) che lima, riduce e
mortifica il potente respiro storico metaforico del romanzo come grande
parabola sulla fine del Sogno Americano.
La messa in scena timidamente compita operata da McGregor si sofferma
essenzialmente sul dramma familiare e sulla monolitica dedizione dello
“svedese” al suo destino di uomo tutto d’un pezzo. Peccato che vengano smarriti
quasi del tutto i risvolti storici, le interconnessioni tra la disgregazione
della famiglia e il crollo dell’utopia dell’America come terra promessa e
“paradiso” delle opportunità, e persino il travagliato rapporto padre figlia si
riduce a frettolosi momenti di dozzinale sentimentalismo. Lo stesso dicasi per
la descrizione sommaria del profondo disagio giovanile che fu alla base di
quelle rivolte sociali e politiche che infiammarono il mondo occidentale dal
1968 fino alla prima metà degli anni ’70, abbracciando le cause del pacifismo, dei
diritti civili e dell’emancipazione sessuale come paravento di un’intrinseca
ferocia interiore troppo a lungo covata nei riguardi di un modello patriarcale
conformista e fasullo, incapace di adeguarsi alle esigenze delle nuove
generazioni. In mani ben più esperte e capaci (ad esempio sarebbe stato un
soggetto perfetto per Paul Thomas Anderson) poteva essere un capolavoro alla
stregua del fortunato romanzo ispiratore. Completano il cast Rupert Evans,
David Strathairn e Valorie Curry, che ci regala una sequenza “bollente” che
mette a dura prova la morigerata graniticità dello “svedese” (e del film).
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