mercoledì 8 febbraio 2017

Split (Split, 2016) di M. Night Shyamalan

Kevin soffre di una grave forma di psicopatia dissociativa che lo porta a manifestare ben 23 personalità differenti: ora infantili, ora miti, ora violente, ora inquietanti. La battaglia interiore che si combatte nella psiche dell’uomo sembra far prevalere le sue soggettività oscure, che lo spingono a rapire tre ragazze adolescenti e rinchiuderle in uno scantinato, in attesa che si manifesti una nuova e più pericolosa personalità, a cui le giovani innocenti devono essere sacrificate. La psichiatra che si occupa della singolare patologia del soggetto inizia a sospettare qualcosa e decide di tener d’occhio i movimenti di Kevin, ma la situazione si fa ben presto rischiosa. Inquietante psicothriller apocrifo di Shyamalan, che filtra attraverso il particolarissimo sguardo dell’autore un insieme di influenze e di suggestioni derivanti da tanta (anche eccellente) filmografia attinente del passato: da Hitchcock a De Palma, passando per il misconosciuto Identità di James Mangold. Come sempre il regista indiano utilizza un ritmo compassato e atmosfere striscianti di minaccia incombente per raccontare una storia che fonde i generi e le sue personali ossessioni, senza dimenticare il fantastico, il fumettistico e l’amata Philadelphia, la location di quasi tutti i suoi film. L’inevitabile finale a sorpresa (autentico marchio di fabbrica di Shyamalan) è presente anche stavolta e farà la gioia dei fans incalliti dell’autore. Peccato che, nonostante le buone interpretazioni di un mimetico James McAvoy e soprattutto dell’intensa Anya Taylor-Joy (già apprezzata nell’horror fantascientifico Morgan), il film si trascini in un innocuo anonimato tra situazioni prevedibili e momenti soporiferi (i dialoghi tra Kevin e la psicologa sono a dir poco imbarazzanti), scegliendo di approfondire solo gli aspetti orrorifici e soprannaturali ma trascurando, invece, quelli più sottili e interessanti, legati ai ricordi infantili della (brava) protagonista femminile. Sarebbe stato assai più stimolante se il regista avesse sviscerato con più lucido rigore la palese connessione tra la battaglia psicologica di Kevin e quella (archetipa) della protagonista, evidenziandone l’alone “mitologico” di eroina che cerca di sconfiggere non solo i demoni esteriori ma, soprattutto, quelli interiori. Quasi inspiegabile il notevole successo di pubblico riscosso dalla pellicola, che ha il suo pregio maggiore nella fotografia cupa di pregnante espressività, che conferisce agli interni sotterranei (l’antro di Kevin) una perversa malia oscura. Per il resto ci troviamo di fronte ad un onesto lavoro di pura routine derivativa rispetto ai tanti (troppi?) prodotti che il cinema ha dedicato alla sinistra figura del serial killer.

Voto:
voto: 3/5

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