domenica 27 febbraio 2022

The Guilty (2021) di Antoine Fuqua

Joe Baylor, agente della polizia di Los Angeles alle prese con problemi familiari ed un processo in corso a suo carico per avere ucciso un ragazzo durante un'operazione, è stato momentaneamente declassato come operatore telefonico del 911. Mentre la metropoli californiana è alle prese con una drammatica emergenza incendi senza precedenti, nella lunga notte prima del processo che ne deciderà il destino, Joe riceve la chiamata di Emily, una ragazza disperata vittima di un rapimento da parte dell'ex marito balordo e violento. L'agente si rende subito conto che la questione tempo è cruciale per salvare la donna e si adopera in ogni modo, ben oltre i limiti previsti dai suoi obblighi professionali, per cercare di aiutarla, prendendo emotivamente la faccenda come un fatto personale che lo tocca nel profondo. Questo avvincente thriller psicologico "da camera", scritto da Nic Pizzolatto e diretto da Antoine Fuqua (specialista in polizieschi neri dalle forti implicazioni morali), è il remake americano di un ottimo film danese (praticamente sconosciuto in Italia): Il colpevole - The Guilty (Den skyldige, 2018) di Gustav Möller, da cui eredita pedissequamente l'ambientazione claustrofobica, l'ambiguo dilemma etico e le poco convenzionali idee vincenti: un unico protagonista sempre in scena che parla al telefono dalla sua postazione e la totale assenza di azione (degli altri coprotagonisti udiamo soltanto le voci e tutti i fatti che avvengono al di fuori dovranno essere immaginati dallo spettatore attraverso i dialoghi telefonici). Il divo Jake Gyllenhaal, dopo aver visto la pellicola originale, se ne è talmente innamorato da spingere per la realizzazione di questo remake, da lui prodotto e interpretato come assoluto protagonista, costantemente inquadrato in primo piano dal primo all'ultimo minuto. La sua performance è indubbiamente notevole, una delle più estreme e convincenti della sua carriera, ma decisamente diversa da quella di Jakob Cedergren (il suo "corrispettivo" danese), ben più algida, inquietante, sottile ed ambigua. I pregi pur presenti in questa nuova versione sono ereditati pari pari da quelli alla base dell'originale, a cui vengono aggiunte le ambientazioni più incisive (eccellente la scelta della simultaneità con il disastro degli incendi che hanno sconvolto la California), un maggior dinamismo nei dialoghi, ma anche delle semplificazioni tipicamente hollywoodiane, un personaggio principale meno sfumato e spesso troppo sopra le righe ed un finale meno cupo. Le performance vocali di Riley Keough, Ethan Hawke e Peter Sarsgaard vengono chiaramente perse nella versione doppiata in italiano; ragion per cui è consigliabile una visione in lingua madre, anche perchè specialmente la Keough fornisce un'interpretazione drammaticamente ragguardevole. Nel nostro paese il film non ha avuto una distribuzione in sala ma è uscito direttamente sulla piattaforma di streaming Netflix.

Voto:
voto: 3/5

venerdì 25 febbraio 2022

West Side Story (2021) di Steven Spielberg

New York, fine anni '50. Il degradato quartiere dell'Upper West Side di Manhattan, densamente popolato da immigrati europei e portoricani in perenne scontro tra loro, è sottoposto al processo di riqualificazione urbana della "Grande Mela" e gran parte dei vecchi edifici sono in demolizione per fare spazio al futuro Lincoln Center in costruzione. E' proprio con questa immagine, fortemente evocativa, che si apre il film, tra il disfacimento del cantiere aperto, le ruspe e le gru di demolizione, i palazzi abbattuti, i detriti e la polvere, affiancati all'umanità vivace e colorita che ancora brulica in ciò che resta in piedi dell'antico quartiere. Come a voler stabilire, attraverso le immagini, un ponte di connessione tra il vecchio mondo, illustrato con malinconica nostalgia, e il nuovo che avanza inesorabile, spazzandone via la memoria fatta di sentimenti, passioni, violenze, sogni e contraddizioni. Basterebbe già questo a far capire il tono del film, l'accorato senso di accostamento ad un classico leggendario della storia del cinema e del teatro di Broadway e la mano esperta, illuminata dalla saggezza della maturità che si è affiancata all'innato talento, che guida il progetto a lungo cullato prima di vedere la luce. La mano di Steven Spielberg, maestro indiscusso dei sogni sul grande schermo e di quel senso romantico della meraviglia che fu base fondante della nascita del cinema, fin dai tempi eroici dei primi pionieri della "settima arte". In questo remake spielberghiano del grande classico del 1961 di Jerome Robbins e Robert Wise, uno dei più celebri musical hollywoodiani di tutti i tempi, adorato da pubblico e critica e premiato con ben 10 Oscar, la vicenda raccontata è quella che già conosciamo, invero più fedele all'originale teatrale scritto da Jerome Robbins, Arthur Laurents, Leonard Bernstein e Stephen Sondheim (e liberamente ispirato alla tragedia "Romeo e Giulietta" di William Shakespeare) che al pluridecorato film di Robbins-Wise. Due gang giovanili di strada, i Jets (caucasici europei) e gli Sharks (ispanici portoricani), si contendono il controllo del territorio del West Side con continui scontri e zuffe reciproche, frutto di un'antica rivalità basata sull'intolleranza dello "straniero" e sulla prevaricazione violenta del "diverso". La situazione diventa incandescente quando Tony, fondatore e leader dei Jets divenuto più mite dopo un anno trascorso in prigione, s'innamora perdutamente della bella Maria, sorella minore di Bernardo, turbolento capo degli Sharks, temuto e rispettato dall'intera comunità latina del quartiere. Maria, ragazza forte e indipendente, ricambia totalmente l'amore di Tony e sogna di fuggire con lui, per spezzare la catena di un'odio atavico che lei, già proiettata verso i venti di cambiamento del futuro, non condivide e ritiene un segno di antiquato pregiudizio. Ma potrà l'amore riuscire a sconfiggere la cortina dell'odio? Fin dal 2014 Spielberg ha mostrato grande interesse verso la realizzazione di un remake del musical West Side Story e, grazie alla sua influenza, è riuscito prima ad acquisirne i diritti e poi, affidandosi al fidato sceneggiatore Tony Kushner, a trasformare il progetto in realtà dopo un lungo tira e molla di controversie produttive. Girato principalmente in strada, in veri quartieri newyorkesi come Harlem e Brooklyn, e nel New Jersey, e rimandato ulteriormente di un anno a causa della pandemia di covid-19, questo film traboccante di amore verso l'originale riesce a sviluppare, in deferente autonomia, una propria identità che ne giustifica il senso al di là dell'omaggio e del tributo sentimentale. Il risultato finale è una pellicola magnifica, visivamente sontuosa, realizzata con il cuore del vecchio cinema classico di una volta, stilisticamente pregevole nella messa in scena, nei movimenti di macchina fluidi, nelle inquadrature dinamiche in campo lungo e nell'inventivo utilizzo delle luci e delle ombre che conferiscono nuova linfa ai densi scenari di questa grande tragedia musicale. Perfetta la ricostruzione ambientale, incantevoli le scenografie, le coreografie, i balletti e le canzoni, con l'ottimo lavoro di fresco riarrangiamento dei celeberrimi brani originali di Leonard Bernstein eseguito dall'affidabile David Newman, sfavillante la fotografia del polacco Janusz Kaminski ed encomiabile il casting (durato diversi anni alla puntigliosa ricerca di volti giusti e sconosciuti), che ha reso possibile il "miracolo" di non far rimpiangere gli attori del 1961. Bravissimi e perfetti nei rispettivi ruoli tutti gli interpreti, da Ansel Elgort a David Alvarez, da Mike Faist a Corey Stoll, ma la lode la meritano principalmente le attrici: l'esordiente Rachel Zegler (che buca lo schermo con la sua radiosa bellezza ed è all'altezza di Natalie Wood nei panni di Maria) e la talentuosa Ariana DeBose, che è l'esemplare Anita del nuovo millennio. Da segnalare la presenza di Rita Moreno (che interpretava Anita nel film di Robbins-Wise e che vinse l'Oscar per quel ruolo), fortemente voluta da Spielberg nel suo remake, che qui dà vita al nuovo personaggio di Valentina (che prende il posto del saggio Doc di Ned Glass) e che costituisce l'unica importante modifica apportata rispetto alla storia originale. Dal punto di vista commerciale questa pellicola è stata un mezzo flop, chiaro segno di come oggi i gusti e la sensibilità del pubblico siano molto cambiate rispetto al cinema dal sapore classico ed al musical in generale. La critica è stata però giustamente prodiga di elogi e l'Academy Awards ha tributato all'opera 7 meritatissime nomination agli Oscar, tra cui miglior film e miglior regia (per Spielberg è l'ottava candidatura come regista). Il grande autore ha espressamente dedicato questo lungometraggio a suo padre (come sancito dal toccante "To Dad" che compare all'inizio dei titoli di coda), sia perché West Side Story era il musical preferito dei suoi genitori e sia come segno affettivo tangibile della completa ricucitura di quello strappo emotivo (la separazione dei suoi) che ha segnato la sua adolescenza e che è leggibile tra le pieghe di molte sue opere. La decisione di non tradurre e non sottotitolare i dialoghi in spagnolo ha generato qualche polemica, ma l'autore si è dimostrato inamovibile su questo punto. Una scelta artistica ma anche "politica", che collega questo classico rinnovato alla realtà sociale contemporanea, americana ma non solo, in cui ancora ci si scontra con i medesimi pregiudizi, discriminazioni e intolleranze descritte nel film. Lunga vita a Maestri come Spielberg o Scorsese che rendono ancora oggi possibile la realizzazione di opere come questa, affini al vecchio concetto di "kolossal" e ricolme di quello spirito epico romantico che anela alla meraviglia e all'emozione nella sua forma più pura, e che rese grande la Hollywood degli anni d'oro.

Voto:
voto: 4,5/5

mercoledì 23 febbraio 2022

Raw - Una cruda verità (Grave, 2016) di Julia Ducournau

La giovane Justine è una matricola appena iscritta alla facoltà di veterinaria, già frequentata in passato dai suoi genitori e da sua sorella maggiore Alexia, che è una studentessa dell'ultimo anno di corso. Timida e spaesata, Justine viene sottoposta, da parte degli studenti più anziani, al lugubre rito di iniziazione previsto per i novellini dalle tradizioni dell'ateneo, che prevede un "bagno" con sangue di animale ed il consumo di carne cruda. Per lei, vegetariana come da consolidato orientamento familiare, è l'inizio di un doloroso percorso di crescita che la metterà di fronte ad una terribile realtà. La traduzione letterale del titolo ("Raw") è "crudo", l'espressione perfetta per definire il senso, il tono e la natura di questo horror feroce di matrice psicoanalitica, che può essere letto a livelli diversi: un agghiacciante racconto di formazione, una metafora ancestrale della scoperta della sessualità come inconfessabile pulsione ferina, un'epifania carnale degli istinti più selvaggi della natura umana e la relazione simbolica tra desiderio erotico e brama di possesso del corpo dell'altro. La regista parigina Julia Ducournau, qui al suo esordio, ha scritto e diretto quest'opera potente, spiazzante e a tratti disturbante, muovendosi con provocatoria audacia sulla scia della sanguinaria "New Age" dell'horror francese, inaugurata nel nuovo millennio da autori come Pascal Laugier, Alexandre Aja, Alexandre Bustillo o Julien Maury. Ma Raw si pone nettamente al di sopra di tutti gli splatter orripilanti finalizzati a turbare lo spettatore grazie al suo stile asettico, alla sua fascinazione oscura di natura psicologica, alla messa in scena straniante e ricercata ed alla sua evidente radice allegorica che coniuga al femminile i concetti espressi in precedenza e ne esplora la potenza, la doppiezza e anche la mostruosità, attraverso l'uso impressionante di elementi primigeni come la carne e il sangue, elementi vitali o mortiferi a seconda della prospettiva. Di questa crudele (anzi "cruda") parabola sul potere naturale del femminino e sulla (ri)scoperta degli istinti primordiali è bene svelare il meno possibile sui dettagli della trama, per non rovinare la visione allo spettatore, che deve però essere consapevole che trattasi di un film estremo, non per tutti, sicuramente sconsigliabile al pubblico più sensibile verso i contenuti violenti. Da menzionare almeno tre sequenze di grande impatto: il misterioso prologo cronenberghiano, l'epilogo scioccante e la scena centrale della "rivelazione" che vede coinvolte le due sorelle. Presentato in anteprima al Festival di Cannes ha suscitato reazioni contrastanti in sala, è stato ben accolto dalla critica ed è stato insignito con il premio FIPRESCI. Durante la sua successiva proiezione al Festival di Toronto si sono anche registrati lievi malori tra gli spettatori, a causa delle scene cruente, e la notizia, enfatizzata dalle riviste specializzate, ha accresciuto di molto la nomea sinistra della pellicola. Da lodare l'interpretazione delle due giovani protagoniste, Garance Marillier e Ella Rumpf, che si sono immedesimate con inquietante realismo nei rispettivi ruoli. Nella colonna sonora è stato inserito il brano "Ma che freddo fa" cantato da Nada, ma il film non è mai stato distribuito in Italia, uscendo un anno dopo direttamente in versione home video.

Voto:
voto: 4/5

martedì 22 febbraio 2022

France (2021) di Bruno Dumont

Lei si chiama France (come la sua nazione), di cognome de Meurs, ed è la più famosa, ammirata e chiacchierata giornalista della televisione francese. Bella, bionda, ricca, pungente, sofisticata, cinica, ambiziosa e con un ego smisurato, France è poco dedita alla famiglia e totalmente presa dalla carriera, in cui brilla tra la conduzione di programmi di approfondimento politico e reportage sensazionalistici in pericolose zone di guerra, dove la nostra è sempre in prima linea (e in primo piano). Un accidentale incidente automobilistico, in cui France investe uno scalcinato rider extracomunitario, procurandogli una seria frattura alla gamba, fa crollare il suo castello di formalismo e di convinzioni, facendola piombare in una profonda crisi depressiva, inizialmente di natura morale e poi esistenziale. Sconvolta e turbata, la donna decide di fuggire dalla luce dei riflettori e cerca riparo nella quiete di una incantevole clinica d'élite, nascosta nel cuore delle Alpi Svizzere, tra natura incontaminata e paesaggi mozzafiato. Qui cerca di ritrovare sè stessa, evadendo dal peso della sua fama e all'ombra di un quieto anonimato, ma non può immaginare che per lei le difficoltà sono appena iniziate. La fuga, sia fisica che mentale, è uno dei temi dominanti del cinema del francese Bruno Dumont, esponente della così detta "New Extremity" d'oltralpe e da sempre autore radicale, che cerca di ricalcare le orme stilistiche del suo mito personale, Robert Bresson. E non fa eccezione questo suo decimo lungometraggio, presentato in concorso al Festival di Cannes e da lui scritto e diretto: una raggelante satira nera sul moderno "circo" dei mass media che oscilla tra tragedia, commedia grottesca, amara critica sociale e melodramma beffardo. La costante oscillazione dei toni e le ardite svolte narrative non sono sempre gestite con l'equilibrio necessario e con la giusta asciuttezza formale, ed il film paga anche il dazio di un'eccessiva lunghezza, che produce un certo effetto di ridondanza espressiva, che ha i suoi picchi esagerati nell'abuso di prolungati primi piani della protagonista (un'eccellente Léa Seydoux, perfetta per il ruolo), con esasperazioni mimiche talmente sopra le righe da sfociare nel ridicolo involontario. Ma, di contro, la pellicola riesce ad offrire un ritratto spietato e amaramente veritiero del sensazionalismo contemporaneo, del narcisismo dei "divi" dell'informazione, della manipolazione psicologica operata dalla televisione sul pubblico e degli atteggiamenti più deteriori dei media, come invadenza, servilismo, cinismo, ipocrisia e morbosa strumentalizzazione delle tragedie. Dietro al personaggio di France de Meurs, complessa, ambigua, affascinante e odiosa al tempo stesso, si nasconde il cuore del problema che il regista intende denunciare, includendo perfidamente nel lotto persino sè stesso ed il suo cinema: la società moderna è schiava dello "spettacolo" e tutto viene mostrato, raccontato, vissuto in funzione di questa regola. Nessuno ne è esente o completamente innocente: chi lo dirige, chi lo interpreta e chi lo subisce (il pubblico), diventandone fruitore appassionato, consumatore compulsivo e, quindi, complice inconsapevole. Nel mondo parossistico messo in scena da Dumont non è mai ben chiaro quando si esca o quando si entri nello "spettacolo", la linea di confine tra realtà e finzione è sottilmente sfumata e la vita privata della protagonista sembra essa stessa parte di un ulteriore livello di un "reality show". E il pregio maggiore del film risiede proprio in questo paradosso, in questa astratta sovrapposizione di opposti che mira a tratteggiare un'amara caricatura della nostra epoca, mettendone a nudo la contraddittoria vacuità e la spudorata mancanza di etica.
 
Voto:
voto: 3,5/5

lunedì 21 febbraio 2022

Licorice Pizza (2021) di Paul Thomas Anderson

Los Angeles, 1973. Gary Valentine, liceale quindicenne vispo e chiacchierone, incontra a scuola Alana Kane, una ragazza di dieci anni più grande di lui che ha una gran voglia di emanciparsi ma è ancora fortemente indecisa su cosa fare nella vita. Lui è subito stregato, la tampina e la travolge con tanti discorsi e le promette fin da subito il suo amore eterno. Lei è indecisa, un po' stizzita ma anche incuriosita da questo baldo ragazzone dal sorriso disarmante e dall'eloquio facile. Tra i due nasce uno strano rapporto che si cementa nel tempo e che li lega tra alti e bassi: si cercano, si perdono e si ritrovano, si dichiarano amici ma è evidente che c'è qualcosa di più che però non riesce ad emergere per impaccio, confusione e prese di posizione testarde. Gary è lanciato come giovane attore promettente, Alana lo assiste e gli fa da balia, poi si lascia coinvolgere nelle sue imprese imprenditoriali, passando dalla vendita di materassi ad acqua alle sale giochi. Intanto lei conosce altri ragazzi, viene sedotta dalle chimere del mondo del cinema e poi dall'attivismo politico, ma Gary finisce sempre per tornare sulla sua strada, in un modo o nell'altro. Sarà vero amore? Questa rutilante commedia sentimentale sul primo amore adolescenziale, prodotta, scritta e diretta da Paul Thomas Anderson (che ne ha curato anche la splendida fotografia insieme a Michael Bauman), è senza dubbio il film più personale, sentito, tenero, sorridente e frizzante dell'autore californiano. Ambientato nei luoghi e nei tempi della sua adolescenza, i formidabili anni '70 e quell'aggregato a perdita d'occhio di piccole villette a schiera che è la San Fernando Valley (la "quasi Hollywood" periferica dove Anderson è cresciuto, dove aveva già girato due pellicole precedenti, Boogie Nights (1997) e Magnolia (1999), e dove i sogni losangelini sono più urgenti e smisurati), questa sorta di novello "American Graffiti" dell'autore è un dolcissimo affresco agile, sbarazzino e frenetico, ora stralunato ora trascinante, tutto costruito sull'onda dei ricordi e delle emozioni, capace di catturare magnificamente lo spirito e le atmosfere dell'epoca attraverso immagini, musica, personaggi o dialoghi, e declinandole secondo la prospettiva palpitante di uno sguardo giovanile. E' un'opera spensierata che coinvolge e rasserena, instillando anche sottili punte di nostalgica malinconia; calda come un abbraccio, vitale come la forza dei primi turbamenti amorosi e dolcemente fugace perchè impalpabile, quasi fatta della stessa materia dei sogni. Forte di una regia calibrata di classica misura, di una fotografia luminosa fortemente evocativa, di una strepitosa colonna sonora composta dalle hits d'epoca e di interpretazioni eccellenti di giovani attori sconosciuti (Cooper Hoffman, Alana Haim), affiancati da star di navigata esperienza in ruoli secondari (Bradley Cooper, Sean Penn), è un ennesimo esempio che riconferma la piena maturità artistica dell'autore e la sua capacità di rinnovarsi e di sorprendere il suo pubblico, pur restando sempre coerente ai suoi temi e alla sua forte idea di cinema. Ormai da tempo definitivamente affrancatosi dai suoi "numi tutelari" (Altman, Scorsese, Kubrick), Paul Thomas Anderson ha raggiunto una personalità, uno spessore ed una visione totalmente autonomi, che lo collocano nell'Olimpo dei cineasti americani e gli fanno ben meritare l'appellativo di degno erede del grande Robert Altman. Il titolo, apparentemente strambo, si riferisce ad una catena di negozi di dischi molto conosciuta nella California meridionale durante gli anni '70 ed è l'epigrafe che suggella il forte legame affettivo di Anderson rispetto alla storia raccontata nell'opera, sbocciata come una impellente necessità dai suoi ricordi di gioventù, come a voler accarezzare, cullare e bloccare quei dolci fremiti imperiosi, le misteriose circonvoluzioni di quel "filo nascosto" che è l'amore. Questo film a rotta di collo in cui i protagonisti vanno sempre di corsa è molto più di un teen movie o di un racconto di formazione: è un inseguimento amoroso, è un soffio di libertà, è una brezza d'estate, è una romanza sentimentale che fotografa un'epoca, cattura un sogno e tende all'universalità, riflettendo, non senza un pizzico di amarezza, su come speranza, utopia, dolore e coraggio siano il sale della vita interiore, la ricetta contro il pungente rimorso delle occasioni perdute. Il viaggio nel tempo compiuto dall'autore, il ritorno a quell'entusiasmo contagioso di un'agiata "periferia" americana più innocente, in cui tutto sembrava ancora possibile per chi avesse il talento e l'ardore di osare, non è mai patetico o serioso, ma gioviale e brioso, ci porta per mano come un (ultimo) valzer euforico in cui gli unici veri "ostacoli" sono rappresentati dal mondo degli adulti (la penuria di benzina derivata dalla crisi petrolifera, il vanitoso maturo attore di Sean Penn, il regista fuori di testa di Tom Waits o lo stravagante produttore sottaniere di Bradley Cooper, tutti ispirati a personaggi reali su cui si può giocare a ipotizzare). Ed è impossibile non citare la performance magnetica dell'esordiente Alana Haim, che rifulge dallo schermo con il personaggio di Alana Kane, incredibilmente sensuale eppure imperfetta, non una Barbie angelica ma una donna reale, empatica, contraddittoria e tenera, in cui l'immedesimazione può scattare agevolmente. E l'altro protagonista alla sua prima esperienza è Cooper Hoffman, figlio del grandissimo e compianto Philip Seymour Hoffman, con cui Paul Thomas Anderson aveva una sintonia speciale e che, non a caso, compare in quasi tutti i suoi film. E, ovviamente, la presenza di Tom Waits suggella il legame sentimentale ed elettivo con il Maestro Altman. L'Academy Awards, dimostrando competenza e gusti raffinati, ha tributato alla pellicola tre meritatissime candidature "pesanti": miglior film, miglior regia e migliore sceneggiatura originale. E in tutte e tre c'è lo zampino di Paul Thomas Anderson, autodidatta della San Fernando Valley che ha raggiunto le vette del grande cinema d'autore.
 
Voto:
voto: 4,5/5

Il bambino nascosto (2021) di Roberto Andò

Nella Napoli contemporanea Gabriele Santoro è un maturo maestro di pianoforte, uomo schivo e abitudinario, che si è staccato da tempo dalla sua famiglia dell'alta borghesia per condurre un'esistenza solitaria in un vecchio palazzo storico nel cuore dei Quartieri Spagnoli, nel mezzo di una realtà sociale problematica tra criminalità, degrado e gente di malaffare. La sua vita opaca riceve una forte scossa quando nel suo appartamento si introduce di soppiatto un bambino figlio di camorristi, Ciro, in fuga da suo padre che lo vuol consegnare al boss del rione per lavare l'onta di uno sgarro e mettersi al riparo da ritorsioni. Di fronte alla richiesta di aiuto del piccolo, Gabriele decide di accoglierlo e di tenerlo nascosto, per metterlo al riparo dalla spietata "legge" criminale dell'occhio per occhio. Ma in un ambiente in cui anche i muri hanno orecchie e gli occhi indiscreti spuntano da ogni angolo, i rischi per la sua stessa incolumità sono altissimi. Questo delicato dramma sociale di Roberto Andò è l'adattamento per il grande schermo del suo romanzo omonimo, una storia di finzione dall'ambientazione pregante che racconta l'incontro-scontro tra due mondi apparentemente opposti: quello della Napoli "bene", colta e raffinata, dei quartieri alti e quello del crimine organizzato partenopeo, le cui ideologie feroci, prevaricatrici e intolleranti attecchiscono come semi del male anche sui più piccoli, i figli "maledetti" della Camorra, acerbe anime perdute la cui innocenza è stata contaminata troppo presto dall'orrore quotidiano in cui sono stati allevati. Il piccolo Ciro, egregiamente interpretato dal giovanissimo Giuseppe Pirozzi, è uno scugnizzo che possiede già i tratti del delinquente in erba, ma sotto l'arroganza del bulletto possiede ancora nel profondo l'esuberanza e la voglia di tenerezza di un bambino cresciuto troppo in fretta. L'anziano maestro di musica a cui il bravo Silvio Orlando conferisce la giusta dose di decoro, autorevolezza, umanità e solitudine interiore, è un uomo che ha dimenticato l'empatia ma che trova la forza di rimettersi in gioco e rischiare tutto quello che ha costruito in anni di silenzioso isolamento, grazie a questo incontro inatteso e "fatale". Il regista sceglie saggiamente uno stile sobrio, lavorando per sottrazione ed evitando gli inciampi melodrammatici o l'abuso di stereotipi, mettendo in scena un ritratto sincero e malinconico di due anime perse, di una città piena di meraviglie e di contraddizioni, rinnovando, con i modi del racconto di formazione, la tematica sempre fertile della seconda occasione. Non mancano i momenti toccanti di tenera poesia e le belle invenzioni stilistiche, come quella di un delitto di camorra mostrato attraverso una carrellata in verticale che si arrampica all'esterno del palazzo, in modo da "nasconderne" pietosamente la ferocia esplicita. Oltre ai due ottimi attori protagonisti sono eccellenti anche i "caratteristi" di contorno, con almeno due personaggi straordinari: il giovane criminale con la mai sopita passione del pianoforte di Lino Musella ed il vecchio padre di Gabriele, a cui il grande Roberto Herlitzka garantisce un'apparizione di forte spessore in un cameo memorabile. Il finale aperto e leggibile in modi diversi getta ombre poco rassicuranti sulla sempre auspicata risoluzione della così detta "questione" del Mezzogiorno d'Italia.

Voto:
voto: 3,5/5

sabato 19 febbraio 2022

Storia di un fantasma (A Ghost Story, 2017) di David Lowery

C e M sono felicemente sposati e condividono una vita semplice fatta di tenerezze e di attenzioni reciproche ed una piccola casa a Dallas fuori dal centro abitato. Lei pianifica un trasloco mentre lui si sente troppo legato a quei luoghi dove hanno vissuto e sono stati bene insieme. C muore all'improvviso in un tragico incidente e il suo fantasma, coperto da un lenzuolo bianco, ritorna nella loro casa dove osserva mestamente il dolore di M, i suoi tentativi di ricominciare a vivere, la sua partenza, l'avvicendarsi dei nuovi inquilini e le loro storie, i mutamenti portati dal tempo che avanza inesorabile, tra muta costernazione e la flebile speranza che un universo teoricamente ciclico potrebbe forse dargli, un giorno, una nuova vita e una nuova possibilità. Questo splendido melodramma fantastico scritto e diretto da David Lowery, con protagonisti Casey Affleck e Rooney Mara, è un piccolo gioiello del cinema indipendente americano, giustamente celebrato dalla critica al Sundance Film Festival dove venne proiettato in anteprima, e purtroppo quasi sconosciuto nel nostro paese. Chi si aspetta un horror spaventoso o una melliflua romanza sentimentale alla Ghost (1990), resterà inevitabilmente deluso e farebbe meglio a scegliere un'altra pellicola. A Ghost Story è un malinconico, delicato, soffuso ed intimistico dramma amoroso esistenziale, che riflette con ricchezza di sfumature e fascinazione introspettiva su tematiche profonde quali il senso ultimo della vita, l'elaborazione di un lutto, l'attaccamento terreno ai luoghi che ci sono stati cari, l'importanza della memoria per "tenere in vita" quella fugace scintilla emotiva che rimane di una vita umana dopo la dipartita e la crudele tirannide del tempo. Teneramente ovattato, dolcemente poetico nella sua struggente armonia fatta di lunghi silenzi, sguardi intensi, emozioni sincere e sentimenti mai sdolcinati, ci parla sussurrando al cuore attraverso immagini e musica (i dialoghi sono pochi e secchi) e ci immerge in un mondo surreale che riesce a solleticare corde visceralmente profonde, fornendo costantemente allo spettatore la prospettiva del fantasma. Dal punto di vista tecnico il regista ha scelto un inusuale formato in 4:3, uno stile compassato ed una evocativa fotografia eterea, rappresentando il fantasma protagonista secondo la desueta iconografia settecentesca del corpo avvolto da un lenzuolo bianco (simbolo di un sudario reso innocente dalla morte); una scelta estetica coraggiosa e sorpassata, che conferisce al "personaggio" un senso antico, logoro, ancestrale, celebrativo e profondamente tenero. Esplorando nostalgicamente il confine sottile tra fisico e immateriale, presenza e assenza, ricordo e oblio, luce e ombra, questo film complesso e ammaliante ci lascia dentro una soave sensazione di malinconia, ci accompagna per mano lungo sentieri del cuore universali e guarda alle dinamiche inintelligibili del "cerchio della vita", consegnandoci un finale bellissimo e indimenticabile.
 
Voto:
voto: 4/5

mercoledì 16 febbraio 2022

Macbeth (The Tragedy of Macbeth, 2021) di Joel Coen

Nella Scozia medievale il duca Macbeth, valoroso guerriero fedele alla corona che si è distinto per le sue azioni in battaglia sconfiggendo con eroismo e sprezzo del pericolo un nobile traditore, rimane deluso quando il Re Duncan lo premia con titoli aristocratici invece che con la promessa di ascendere al trono. Infatti, sulla strada del ritorno dalla guerra, Macbeth ha assistito all'apparizione di tre streghe "gemelle" che gli hanno predetto un futuro da re di Scozia. Frustrato nella sua ambizione, contrariato per non sentirsi apprezzato per quanto merita e spinto da una moglie spietata e ossessionata dalla brama di potere, il condottiero mette in atto un sanguinoso piano di regicidio, facendo ricadere la colpa sul giovane principe Malcolm. Ma, una volta salito al trono attraverso l'inganno e il delitto, la sua sete di grandezza non si placa e, tormentato dai sensi di colpa, terrorizzato dal timore di essere tradito e incapace di gestire il truce meccanismo che ha messo in moto, egli scivola progressivamente nel delirio e si macchia di delitti sempre più atroci. Per lui e per la sua malvagia sposa le porte dell'abisso si spalancheranno inevitabilmente. Joel Coen, stavolta senza la sua inseparabile "metà" (il fratello Ethan), ha sceneggiato e diretto, con risultati straordinari, questo ennesimo adattamento cinematografico della famosa tragedia storica di Shakespeare, che non è di certo l'opera migliore del bardo inglese ma una di quelle più rappresentate in teatro e sul grande schermo, anche a causa del fascino oscuro che deriva dalla sua leggendaria nomea maledetta. Girato interamente in interni (con tutti gli ambienti magicamente ricostruiti in teatri di posa) e tecnicamente realizzato in formato 4:3, con un'abbacinante fotografia in un bianco e nero ricco di contrasti e di sfumature, The Tragedy of Macbeth è un autentico gioiello d'autore, formalmente elegante, narrativamente denso, stoico e teso nella messa in scena di fertile astrazione, che è un tripudio di scenografie metafisiche, sequenze evocative, minimalismo geometrico, glaciale asciuttezza, utilizzo geniale dei suoni, delle luci e delle ombre con evidenti ammiccamenti stilistici colti all'espressionismo tedesco degli anni '20 ed alla filmografia shakespeariana di Orson Welles. E' corretto affermare che il grande regista americano realizza, con questo film stupefacente e raffinatissimo, il perfetto sincretismo tra cinema e teatro attraverso la commistione armoniosa tra forma e contenuto, immagini e sonoro, recitazione e suggestione, mito e storia. Particolarmente indovinata la scelta di ridurre "all'osso" il materiale tratto dal testo ispiratore, asciugandolo di tutte le parti che non riguardano strettamente il rapporto tra Macbeth, sua moglie, la bramosia di potere e la follia. In questo modo il film risulta compatto, agile e possente, intimamente epico senza mai ricorrere a forzature spettacolari e fedelissimo all'originale nell'essenza e nei dialoghi, che sono riportati pedissequamente dal "sacro" scritto del bardo. Magistrali le interpretazioni di tutti gli elementi del cast, con menzione speciale per Denzel Washington che giganteggia, ma che viene seguito a ruota da Frances McDormand (moglie del regista) e da una memorabile Kathryn Hunter nel ruolo delle tre streghe. Quando entra in scena lei (anzi "loro") l'intero spazio scenico sembra plagiarsi al suo volere. Ma anche i vari Alex Hassell, Brendan Gleeson, Bertie Carvel e Corey Hawkins offrono delle performance eccellenti e perfettamente funzionali alla visione dell'autore. La principale "modifica" apportata rispetto all'originale letterario, ovvero l'età ben più matura dei due protagonisti, conferisce alla tragedia una ulteriore chiave di lettura di dolorosa riflessione psicologica sul tempo che ci resta. Tre meritatissime nomination agli Oscar 2022: miglior attore (Denzel Washington), migliore fotografia (Bruno Delbonnel) e migliore scenografia (Stefan Dechant e Nancy Haigh). Conoscendo le logiche hollywoodiane è probabile che non vinca nessuna statuetta per il suo essere un'opera troppo di nicchia e decisamente per "palati fini", ma questo "piccolo" grande film è l'ennesima riconferma che il cinema di alta qualità non ha bisogno di budget faraonici o di effetti speciali strabilianti, ma di valide idee, di puro talento e di un solida idea artistica di fondo da tradurre coerentemente in visione, immersione sensoriale, esperienza emotiva, stimolo intellettuale, racconto per immagini. Tutto il resto è solo oro per gli sciocchi.

Voto:
voto: 4,5/5

martedì 15 febbraio 2022

Woman Walks Ahead (2017) di Susanna White

New York, 1889, alla fine delle guerre indiane. Caroline Weldon è una giovane donna nata in svizzera e di classe agiata, anticonformista, vedova, liberale, pittrice affermata, idealista animata da nobili principi e fiera sostenitrice della causa dei nativi americani. Con l'intento di dipingere dei quadri che ritraggono i pellerossa nel loro habitat naturale, parte da sola verso le grandi pianure del Dakota, diretta nella riserva dove gli ultimi Sioux sono stati confinati dall'esercito governativo. La donna riesce ad incontrare il leggendario capo Toro Seduto, lo convince a farsi ritrarre e tra i due nasce una sincera amicizia basata su fiducia e rispetto. Soprannominata in modo dispregiativo "Squaw bianca" dai coloni e dai soldati che vivono nel luogo, Caroline sarà oggetto di vessazioni, insulti e violenze da parte dei bianchi che la trattano come una pericolosa "traditrice" della causa nazionale. Mentre il suo operato diventa argomento di dibattito tra le alte cariche militari del remoto avamposto, il viscido Colonnello Silas Grove decide di sfruttare la situazione a suo vantaggio per provocare un nuovo "casus belli" e sbarazzarsi definitivamente del suo nemico Toro Seduto e degli ultimi indiani a lui fedeli che ancora covano speranze di ribellione verso gli invasori. Questo western biografico diretto dalla britannica Susanna White e ispirato alla reale vicenda della temeraria attivista Caroline Weldon, che sfidò apertamente le leggi, i pregiudizi e le ingiustizie del suo tempo per mettersi dalla parte dei nativi fino a diventare amica, confidente e "segretaria" del temuto capo Toro Seduto, è un malinconico dramma storico intimo e riflessivo, del tutto privo di azione, che denuncia i soprusi e gli abusi commessi dai bianchi a danno dei Sioux-Lakota durante i tragici atti conclusivi delle così dette "guerre indiane". E' un film a tesi, sicuramente realistico e storicamente attendibile, ma anche manicheo nella prospettiva, fedele a quel revisionismo storico che ormai dagli anni '70 anima quasi tutti i western americani, figlio di un incancellabile senso di colpa e di una sensibilità progressista vagamente ipocrita perchè, alla luce dei fatti, ancora fatica a farsi completamente strada nell'ideologia imperialista, avida e violenta che ancora alberga in gran parte della società americana. Dal punto di vista politico la pellicola è fragile e non aggiunge nulla di nuovo o di rilevante a quanto già detto in precedenza sulla questione del genocidio dei nativi, anche perchè la regista sembra maggiormente interessata al discorso della discriminazione e dell'emancipazione femminile. Non a caso è un film diretto da una donna e con una donna come magnifica protagonista (la bravissima Jessica Chastain, sempre luminosa e impeccabile in tutti i ruoli che interpreta); un film che propone un punto di vista femminile, sensibile, compassionevole, più attento agli aspetti umani che a quelli politici economici, intrecciando nel medesimo "groviglio" etico le ingiustizie commesse sugli indiani con quelle compiute sulle donne, trattate come schiave, tenute in disparte, relegate in un angolo silenzioso e "domate" con la forza alla stregua dei cavalli per soggiogarle al dominio dei maschi. La metafora è chiarissima nelle scene in cui Caroline si approccia con paura e riluttanza a cavalcare il bianco destriero, ammaestrato alle esigenze da circo, che Toro Seduto le mette a disposizione. L'epica nostalgica della fine della vecchia frontiera e del grande sogno di libertà dei nativi trova i suoi momenti di massima intensità emotiva nel rapporto tra la donna bianca, altolocata e coraggiosa, ed il fiero capo indiano, ormai ridotto a fenomeno da baraccone nelle apparenze, ma con ancora dentro i lampi del grande guerriero indomabile. Oltre alla Chastain risultano inappuntabili nei rispettivi ruoli Michael Greyeyes e Sam Rockwell, e la struggente bellezza selvaggia degli sterminati scenari naturali della vecchia America fa il resto. Al netto dei moralismi, sempre potenzialmente presenti (a livelli diversi) in operazioni "riparatorie" di questo tipo, i freddi numeri snocciolati durante i titoli di coda sulle dimensioni del massacro dei pellerossa bastano e avanzano a far riflettere e indignare. Anche perchè non è mai abbastanza per tener viva la memoria su tragedie irreparabili come questa.

Voto:
voto: 3/5