Lei si chiama France (come la sua nazione), di cognome de Meurs, ed è la più famosa, ammirata e chiacchierata giornalista della televisione francese. Bella, bionda, ricca, pungente, sofisticata, cinica, ambiziosa e con un ego smisurato, France è poco dedita alla famiglia e totalmente presa dalla carriera, in cui brilla tra la conduzione di programmi di approfondimento politico e reportage sensazionalistici in pericolose zone di guerra, dove la nostra è sempre in prima linea (e in primo piano). Un accidentale incidente automobilistico, in cui France investe uno scalcinato rider extracomunitario, procurandogli una seria frattura alla gamba, fa crollare il suo castello di formalismo e di convinzioni, facendola piombare in una profonda crisi depressiva, inizialmente di natura morale e poi esistenziale. Sconvolta e turbata, la donna decide di fuggire dalla luce dei riflettori e cerca riparo nella quiete di una incantevole clinica d'élite, nascosta nel cuore delle Alpi Svizzere, tra natura incontaminata e paesaggi mozzafiato. Qui cerca di ritrovare sè stessa, evadendo dal peso della sua fama e all'ombra di un quieto anonimato, ma non può immaginare che per lei le difficoltà sono appena iniziate. La fuga, sia fisica che mentale, è uno dei temi dominanti del cinema del francese Bruno Dumont, esponente della così detta "New Extremity" d'oltralpe e da sempre autore radicale, che cerca di ricalcare le orme stilistiche del suo mito personale, Robert Bresson. E non fa eccezione questo suo decimo lungometraggio, presentato in concorso al Festival di Cannes e da lui scritto e diretto: una raggelante satira nera sul moderno "circo" dei mass media che oscilla tra tragedia, commedia grottesca, amara critica sociale e melodramma beffardo. La costante oscillazione dei toni e le ardite svolte narrative non sono sempre gestite con l'equilibrio necessario e con la giusta asciuttezza formale, ed il film paga anche il dazio di un'eccessiva lunghezza, che produce un certo effetto di ridondanza espressiva, che ha i suoi picchi esagerati nell'abuso di prolungati primi piani della protagonista (un'eccellente Léa Seydoux, perfetta per il ruolo), con esasperazioni mimiche talmente sopra le righe da sfociare nel ridicolo involontario. Ma, di contro, la pellicola riesce ad offrire un ritratto spietato e amaramente veritiero del sensazionalismo contemporaneo, del narcisismo dei "divi" dell'informazione, della manipolazione psicologica operata dalla televisione sul pubblico e degli atteggiamenti più deteriori dei media, come invadenza, servilismo, cinismo, ipocrisia e morbosa strumentalizzazione delle tragedie. Dietro al personaggio di France de Meurs, complessa, ambigua, affascinante e odiosa al tempo stesso, si nasconde il cuore del problema che il regista intende denunciare, includendo perfidamente nel lotto persino sè stesso ed il suo cinema: la società moderna è schiava dello "spettacolo" e tutto viene mostrato, raccontato, vissuto in funzione di questa regola. Nessuno ne è esente o completamente innocente: chi lo dirige, chi lo interpreta e chi lo subisce (il pubblico), diventandone fruitore appassionato, consumatore compulsivo e, quindi, complice inconsapevole. Nel mondo parossistico messo in scena da Dumont non è mai ben chiaro quando si esca o quando si entri nello "spettacolo", la linea di confine tra realtà e finzione è sottilmente sfumata e la vita privata della protagonista sembra essa stessa parte di un ulteriore livello di un "reality show". E il pregio maggiore del film risiede proprio in questo paradosso, in questa astratta sovrapposizione di opposti che mira a tratteggiare un'amara caricatura della nostra epoca, mettendone a nudo la contraddittoria vacuità e la spudorata mancanza di etica.
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