lunedì 31 ottobre 2011

Il Terzo Uomo (The third Man, 1949) di Carol Reed

Vienna, 1946: una città ancora sconvolta dai segni della guerra e ripartita in quattro zone di competenza, ciascuna sotto il controllo di una delle potenze vincitrici. Qui giunge l’americano Holly Martins, giovane squattrinato scrittore di romanzetti di poche pretese, per incontrare il suo vecchio amico Harry Lime. Ma una tragica sorpresa lo attende: Lime è dato per morto, tragicamente ucciso in un incidente automobilistico, sebbene le circostanze appaiono subito dubbie. Poco convinto, Martins inizia ad indagare, aiutato dalla bella e algida Anna, ex amante di Lime. Egli scopre che, ad assistere al fatale incidente, oltre ai due testimoni ufficiali, c’era un misterioso terzo uomo che sembra svanito nel nulla. Lo scrittore intuisce che questo enigmatico personaggio possa essere la chiave di volta dell’intera faccenda e si mette sulle sue tracce. Tra intrighi e doppi giochi, colpi di scena e situazioni pericolose, l’amara verità emergerà lentamente, dalle ombre sinistre di una Vienna gotica e decadente, in cui nulla sembra essere così come appare. Capolavoro assoluto del noir e del cinema classico europeo, “Il terzo uomo” segna il punto più alto della carriera del regista inglese Carol Reed, autore spesso sottovalutato e passato in sordina. Tratto da uno script di Graham Greene, il film è un meraviglioso compendio di trama solida ed avvincente, regia sapiente e rigorosa, atmosfere di grande suggestione (che faranno scuola negli anni a venire) ed interpretazioni memorabili. E poi c’è il grande Orson Welles, la cui ombra minacciosa aleggia per tutta la prima parte della storia, al punto che ne sentiamo costantemente la presenza, pur senza vederlo. L’espediente narrativo di preparare lungamente l’entrata in scena di un personaggio, enfatizzandone gli aspetti, creando intorno a lui un’aura oscura e misteriosa, al fine di ingigantirne il prestigio e renderlo titanico, non fu certo inventato dalla coppia Greene- Reed. Lo usava già Vittorio Alfieri nelle sue tragedie o Joseph Conrad nel celeberrimo “Cuore di Tenebra” (1899). Carol Reed fa sua questa mirabile tecnica di accrescimento dell’attesa e la utilizza alla perfezione con il personaggio di Harry Lime (Orson Welles), regalandoci una delle entrate in scena più memorabili della storia del cinema. Welles compare dopo circa un’ora ma, quando emerge dall’ombra (in una meravigliosa sequenza), con il suo fare sornione ed arrogante, cannibalizza il film e da lì in poi non ce ne sarà più per nessuno. La sua interpretazione è straordinaria ed il villain Harry Lime resterà uno dei suoi personaggi più famosi e riusciti di sempre. Una situazione similare (per carisma dell’interprete e resa drammaturgica) si ripeterà nuovamente con il leggendario Colonnello Kurtz di Marlon Brando in “Apocalypse Now” (1979) di Francis Ford Coppola, non a caso ispirato a “Cuore di Tenebra”. Ma Welles era un artista troppo carismatico e geniale per limitarsi alla sola recitazione e la leggenda vuole che egli abbia contribuito attivamente alla sceneggiatura del film. Per lungo tempo Welles, che era uno straordinario affabulatore e che amava giocare sul confine realtà-finzione, ha fatto credere di avere addirittura co-diretto la pellicola insieme a Reed. Cosa poi da lui stesso smentita negli ultimi anni della sua intensa vita. Quello che è certo (sebbene questa sia una parola da usare con parsimonia, quando si parla di Welles) è che il grande attore-regista accettò la parte per l’elevato cachet, essendo alla ricerca di finanziamenti per il suo “Otello” (1952). E’ altresì certo che fu lui a suggerire (e a recitare) la formidabile battuta sull’Italia e sulla Svizzera, uno dei motivi per cui il film è passato alla storia. Ma tantissimi sono i pregi ed i meriti dell’opera, al di là di Welles e della sua geniale “ingombranza”. Innanzi tutte le ambientazioni barocche in una Vienna tetra e maestosa, come mai più si rivedrà sul grande schermo. Ambientazioni che non si limitano a fare da sfondo inerte ma che assurgono, spesso, ad autentiche protagoniste. Magistrale, in tal senso, la fotografia in bianco e nero di Robert Krasker (premiato con l’Oscar), dai toni volutamente ispirati all’Espressionismo tedesco, capace di regalare meravigliosi giochi di luci ed ombre nei vicoli di Vienna. Ma è altrettanto mirabile la tecnica registica nell’uso dei grandangoli per enfatizzare le ombre e distorcere le immagini, regalando inquietanti prospettive sghembe (manco a dirlo, quasi wellesiane) che suscitano un senso di vertigine, consono alle ambiguità morali della vicenda. Lo stesso Reed ebbe la brillante idea di girare, in notturna, con le strade bagnate in modo da esaltare maggiormente i riflessi di luce contrapposti alle lunghe e solenni ombre gotiche della capitale austriaca. Il risultato complessivo è di un tale splendore estetico e visivo da avere pochi eguali nella storia del cinema. Impossibile poi non citare la bella colonna sonora di Anton Karas, divenuta famosa grazie all’appassionato inciso (che rimanda a suggestioni felliniane), suonato con la cetra, che fa da tema musicale portante del film. E a parte il gigante Welles, tutte le interpretazioni sono di gran livello: convincente Joseph Cotten nei panni dello spiantato anti-eroe Holly Martins e splendida la nostra Alida Valli nel ruolo di Anna Schmidt, una immigrata Cecoslovacca, ex amante di Harry Lime, dalla personalità ambigua e dallo sguardo di ghiaccio. Ed una menzione speciale va alla sceneggiatura: solida, avvincente e ricca di colpi di scena. Uno dei grandi pregi della pellicola è la capacità di scandagliare a fondo la psicologia dei personaggi principali, tratteggiando alla perfezione un mondo di ambiguità e smarrimento etico, perfettamente in linea con l’atmosfera post-bellica e pre-guerra fredda. In questo mondo, allo splendido contrasto tra chiaro e scuro, regalatoci dalle immagini della Vienna barocca di Reed, si sovrappongono le infinite sfumature di grigio della moralità dei protagonisti: sempre al confine tra bene e male, luce ed ombra, ora vittime ora carnefici. In questo continuo gioco di riflessi e di opposti, nessuno, alla fine, appare veramente innocente e tutti sembrano agire per un doppio fine. La stessa scelta di tenere a lungo nascosto il personaggio di Lime, filmandone però abilmente l’assenza, rientra in questa suggestiva logica del vedo-non vedo. Un altro grande merito del film, che mi preme sottolineare, è che, nonostante un impianto formale molto complesso ed intrecciato, la sensazione che lascia, a fine visione, è quella di avere assistito ad una pellicola estremamente lineare e semplice (nell’accezione positiva del termine).Molte sono le scene da antologia, che meritano di essere ricordate. Le mie preferite sono: l’entrata in scena di Lime-Welles, che emerge dall’ombra come un sinistro fantasma del passato. Il dialogo Lime-Martins in merito al valore della vita umana che ha luogo sulla ruota panoramica (con delle bellissime inquadrature dall’alto), la maestosa camminata della Valli nel piano sequenza di chiusura e, ovviamente, l’emozionante inseguimento nelle putride e buie viscere di Vienna. Questo film è uno dei miei classici preferiti e merita un voto altissimo. Consigliato a tutti, imperdibile per gli amanti del noir e degli intrighi.

Voto:
voto: 5/5

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