Per la preparazione e realizzazione di questo film Fellini impiega ben tre anni, sia per l’ampiezza di concezione dell’opera che per il grande impegno produttivo, ma il risultato è assolutamente straordinario. “La dolce vita” (1960) è non solo un capolavoro assoluto e un grandioso affresco di costume, ma, quando uscì nelle sale, rappresentò un evento epocale, sconvolse il pubblico per la novità e l’audacia, divise l’opinione pubblica per il dibattito culturale che accese, fu avversato dalle associazioni cattoliche come “immorale”, provocò interventi censori e critiche ferocissime, richiamò folle oceaniche (le sale furono letteralmente prese d’assalto e per accedervi bisognava fare lunghissime file, come testimoniato in una divertente sequenza di “Divorzio all’italiana” del 1961), fece scalpore in tutto il mondo, creò neologismi duraturi come il termine “paparazzo” dal personaggio del fotoreporter del film (mentre quello di “dolce vita” si estese ai pullover a collo alto e, in genere, alla definizione della vita mondana), e soprattutto, offrì una visione profetica (da qualcuno ritenuta allora inaccettabile, ed invece rapidamente superata dai successivi mutamenti di costume) di una società corrotta e dissoluta, persa nel godimento effimero di piaceri materiali, avendo smarriti i valori ideali. L’aspro e severo giudizio morale di Fellini non cedeva al moralismo, ed infatti il film fu attaccato dai moralisti, che confondevano l’oggetto della critica con la sua esibizione. “La dolce vita”, vincitore della Palma d’Oro al festival di Cannes, fu un enorme fenomeno di costume, inaudito e sconvolgente per una Italia da poco risollevatasi dalla miseria del dopoguerra ed appena avviata al benessere economico e all’emancipazione da un retaggio di tradizioni arcaiche. Il film, alla svolta degli anni ’60 e alle soglie del famoso “boom”, non si limitò solo a registrare una realtà, ma la anticipò e vi incise profondamente, cambiando la sensibilità del pubblico e il modo di concepire lo spettacolo cinematografico, insieme ad altri due film fondamentali che uscirono nello stesso 1960, “Rocco e i suoi fratelli” di Visconti e “L’avventura” di Antonioni. In Italia, “La dolce vita” ha costituito un vero e proprio spartiacque tra il cinema precedente e quello successivo. Sarebbe troppo lungo proseguire il discorso sull’innovatività di questo film, che ha influenzato molto cinema successivo (ad esempio, un film diversissimo come “Apocalypse Now”), e che si inserì autorevolmente in una corrente, prima letteraria e poi cinematografica, di profondo cambiamento culturale, dalla quale sarebbero nati alcuni film che tentarono nuove vie espressive, come “L’anno scorso a Marienbad” (Resnais, 1961) e “Otto e mezzo” (il successivo film di Fellini, del ’63), modificando radicalmente la struttura convenzionale del racconto cinematografico attraverso la scomposizione temporale e il libero flusso della narrazione (tentativi troppo audaci ed avanzati per avere un reale seguito, anche se ne sono stati adottati molti stilemi, e un autore come Lynch vi si ispira palesemente). Resta ancora da dire dei meriti esclusivamente cinematografici del film, formalmente splendido, nuovissimo per concezione (la narrazione procede per “episodi”, concatenati dalla presenza del protagonista, che visita i diversi gironi di un moderno “inferno”, tanto che si fece il nome di Dante come riferimento letterario, anche se quello prevalente fu però il “Satyricon” di Petronio, per la descrizione di un mondo decadente e lussurioso), e soprattutto straordinario per la capacità di trasfigurazione della realtà (Fellini infatti gira poco in ambienti reali, preferendo ricrearli in studio).
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