Roma, 2011: nei sette
giorni che vanno dal 5 al 12 novembre s’incrociano tragicamente i destini di
personaggi deprecabili e reietti. Un politico corrotto, Malgradi, impelagato in
loschi affari con la malavita e costretto a disfarsi del corpo ingombrante di
una minorenne, che ha perso la vita durante un “festino” con l’onorevole a base
di sesso e di droga. Il boss della mala romana, “Samurai”, unico sopravvissuto
alla famigerata banda della Magliana, incaricato dalle cosche di condurre in
porto un affare immobiliare milionario, per costruire una nuova Las Vegas sul
litorale di Ostia, grazie a una serie di leggi compiacenti fatte approvare dal
disonesto Malgradi. A questi si aggiungono una colorita banda di zingari dediti
all’usura, un viscido organizzatore di feste mondane, una escort d’alto bordo,
il turbolento capo della gang criminale di Ostia e la sua donna strafatta. E
tutti saranno travolti da un perfido meccanismo criminoso che li condurrà, in
modi diversi, verso la fine: quell’Apocalisse, civile, sociale, politica e
morale, invocata fin dal prologo ambientato nelle austere stanze vaticane. Dal romanzo
omonimo di De Cataldo e Bonini, Sollima ha tratto un cupo apologo sul
malcostume dilagante dei nostri tempi, ispirandosi alla sordida realtà romana
della mala politica, per evocarne figure verosimili ed emblematiche,
evidentemente costruite sul fedele ricalco di quelle reali, che purtroppo
affollano le tristi pagine di cronaca quotidiana. Con un taglio fieramente “di
genere”, un’estetica prossima ai moderni prodotti televisivi sul mondo
criminale, che hanno riscosso un enorme successo di pubblico, ed un ritmo
incalzante che non dà tregua, scandito da una colonna sonora invasiva e
pervasiva dall’anima rock, il regista laziale mette in scena un film nero,
teso, ideologicamente furbo nel suo sensazionalismo populista, diretto con buon
mestiere, intenso in alcune scene madri, efficace in quelle d’azione, ma debole
in certe scelte cruciali di sceneggiatura, totalmente inverosimili. Nel cast
corale spiccano il solito Favino, nel ruolo dell’infido Malgradi, e la Scarano, nei panni di
Viola, sanguigna amante drogata di "Numero 8". Ma l’autentica
protagonista è Roma, egregiamente ritratta con toni oscuri, tetri, sudici, in
accordo alla materia trattata. Una Roma sporca ed austera, algida e distante, visivamente
inquietante nella sua insolita veste piovosa, presente con così tanta pregnanza
in tutte le scene del film da costituirne la cifra stilistica più intima. Una
pioggia simbolica, un anatema naturale, un diluvio biblico, non un lavacro
purificatore ma, piuttosto, una maledizione, una piaga, un cataclisma allegorico, che fa esplodere i tombini, ricoprendo tutto con il lercio fango che
emerge dal sottosuolo di una nazione vittima dei suo stessi vizi e condannata
dalla sua atavica debolezza etica. Aspettando l’Apocalisse, qui simboleggiata
da due importanti eventi reali della cronaca recente, il lezzo immondo della
corruzione deborda dagli infimi antri dell’antica Suburra romana (il luogo dove
politici e criminali segretamente s’incontravano) per sommergere tutto e tutti,
come un peccato originale troppo grave per essere perdonato. Più vicino alla
(buona) televisione che al cinema d’autore, questo Suburra è figlio, legittimo, della nostra epoca, tra enfasi visiva,
effettismo concettuale e scorciatoie ideologiche. Ma Sollima dimostra di
saperci fare con la materia e ci regala più di una scena di notevole fattura,
come quella, visivamente allucinata, in cui "Numero 8" guarda nel
vuoto, di notte, e scrive sul vetro appannato, sognando le luci di Las Vegas e
una tragica “grandezza” da impero del male. E intanto fuori piove, governo
ladro!
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