Una coppia borghese, lui
saccente e arrogante, lei vitale ma repressa dal marito ingombrante, raccoglie
un giovane autostoppista mentre è in procinto di partire per una gita in barca
sul lago. Colpito dall’aria sfrontata del ragazzo, l’uomo lo invita ad unirsi a
loro per dimostrare di essergli superiore. La breve convivenza forzata nello
spazio esiguo del natante darà origine ad una serie di eventi drammatici e
imprevedibili. Una barca, un lago e tre protagonisti per lo straordinario
esordio cinematografico di Roman Polanski, di certo uno dei debutti più
lodevoli nella storia della “settima arte”. Il geniale regista polacco mette in
scena un dramma teso e sottile, compensando l’apparente pochezza di mezzi con
l’eccellente finezza psicologica che rende i personaggi figure emblematiche del
crudele gioco della vita, svelando così il suo reale intento di lucido apologo
sulla natura umana. Chi ci ha visto graffi polemici al regime socialista
polacco, in particolare alla sua politica pavidamente “omertosa”, non ne ha
inteso, a mio avviso, la sua più alta ambizione di parabola antropologica
universale. Il rapporto che si instaura tra i tre personaggi, la tensione
(anche sessuale) strisciante e palpabile, il gioco di sguardi, le frustrazioni
taciute, la centralità della figura femminile (che è, al tempo stesso,
testimone e strumento dell’azione), la contrapposizione tra il modello borghese
e la ribellione giovanile, l’emersione inesorabile dei più primordiali istinti
in condizioni di particolare promiscuità, sono solo alcuni dei
tanti temi egregiamente affrontati da quest’opera complessa, possente, metaforica,
sottilmente stratificata nei suoi numerosi piani di lettura. La sfida virile
tra i due uomini va ben oltre lo scontro generazionale e la lotta di classe, e si
erge a conflitto tra due mondi, tra due concezioni opposte della vita. Nel
microcosmo rappresentato dalla barca, palcoscenico mobile del “duello”,
assumono enorme valenza simbolica gli oggetti: l’acqua, elemento purificatore
tipico del cinema di Polanski, il coltello e la stessa donna, visti come
emblemi di possesso da difendere ad ogni costo o come, nel caso di lei,
“premio” finale. L’epilogo torbido e ambiguo, fertile latore di ciniche
vertigini morali, sposta il senso dell’opera su altri piani, ribaltando il
senso iniziale della figura femminile ed esplorando i confini reconditi del
complesso rapporto uomo-donna, di cui la declinazione matrimoniale è,
probabilmente, quella più ipocrita. Quest’opera straordinaria, lucida e densa,
sontuosamente impaginata nell’intenso bianco e nero, carico di contrasti, della
fotografia curata da Jerzy Lipman, ha svelato al mondo il talento di Polanski
ed è stata la prima pellicola polacca candidata all’Oscar di miglior film
straniero, battuta solo dal capolavoro di Fellini, 8½.
Da segnalare anche la bella colonna sonora jazz di Krzysztof Komeda che fa da
stridente contrappunto ai momenti di massima tensione psicologica del film.
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