giovedì 7 gennaio 2016

Fellini - Satyricon (Fellini - Satyricon, 1969) di Federico Fellini

Nella Roma imperiale di Nerone, due giovani sciagurati, Encolpio e Ascilto, entrambi innamorati dell’efebo Gitone, passano attraverso una serie di incontri avventurosi e licenziosi con una folta galleria di personaggi. Il loro viaggio sarà un percorso, onirico, nei vizi della Roma antica, le cui pratiche dissolute tipiche del ceto “patrizio” vengono trasfigurate fantasticamente dall’estro visionario del regista. Cedendo alle insistenze dei produttori, che (sperando in un altro successo “scandaloso” come La dolce vita) gli chiedono la realizzazione di un film tratto dal “Satyricon” di Petronio, e alle lusinghe della critica, che aveva da tempo indicato i collegamenti tra il classico della letteratura latina e la descrizione della Roma moderna e parimenti corrotta di Fellini, quest’ultimo realizza infine questo progetto a lungo covato, rifiutando però tanto le facili tentazioni commerciali quanto, soprattutto, le rigide convenzioni dei film storici in costume. La sua dichiarata ambizione è quella di girare un film di “fantacoscienza”, cioè di rievocare il mondo romano in termini immaginari, inventandone una versione assolutamente personale, nella quale prevale, come ormai d’abitudine, la dimensione onirica. Il risultato è un film sconcertante ed affascinante, ora sfavillante ora funereo, una sorta di viaggio allucinatorio nell’antichità, influenzato dai nuovi fermenti sociali postsessantottini (i due protagonisti ricordano due hippies, nella loro ambigua celebrazione di ogni libertà, anche sessuale), con sequenze memorabili per genio visionario e originalità di concezione. I due protagonisti sono una sorta di “vitelloni” ante litteram, il cui itinerario picaresco, magicamente sospeso tra sgradevole e sublime, assume i contorni di una sfumata riflessione sul senso della vita terrena che, pur riferendosi al tramonto dell’età imperiale della Roma antica, intende parlare dell’oggi. Provocatorio nello stile ed esteticamente opulento di quella ricchezza eccessiva che solo i geni riescono a raggiungere senza scadere nel patetico, è un’opera così fortemente sperimentale dal punto di vista della sintassi narrativa che lasciò la critica spiazzata e non venne capita dal pubblico. Le forti simbologie oniriche e la patina dionisiaca, che stinge nel surreale, ne fanno un magnifico ermetico trattato “fantastorico” che attinge alla materia oscura dei sogni per mostrare un mondo decadente, eccessivo e spaventoso, ricollocabile in un qualunque contesto di umano edonismo, senza bisogno di una reale dislocazione temporale o sociale. Anche se non ascrivibile nei grandi capolavori dell’autore, perché sfilacciato e disomogeneo, resta un film di assoluto valore artistico e di grande fascino figurativo, un balzo sfrenato nelle leggi prospettiche per idolatrare l’immagine, le scenografie, glorificandole con fantasiosa esuberanza. In questo pingue baccanale visivo vanno citate almeno due sequenze straordinarie come la morte del poeta Eumolpo e l’intera scena ambientata nella villa dei suicidi. E meritano altresì una menzione speciale le scenografie di Danilo Donati, a cui ha collaborato attivamente lo stesso Fellini in fase di ideazione concettuale.

Voto:
voto: 4/5

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