Nella Roma imperiale di
Nerone, due giovani sciagurati, Encolpio e Ascilto, entrambi innamorati dell’efebo
Gitone, passano attraverso una serie di incontri avventurosi e licenziosi con
una folta galleria di personaggi. Il loro viaggio sarà un percorso, onirico,
nei vizi della Roma antica, le cui pratiche dissolute tipiche del ceto “patrizio”
vengono trasfigurate fantasticamente dall’estro visionario del regista. Cedendo
alle insistenze dei produttori, che (sperando in un altro successo “scandaloso”
come La
dolce vita) gli chiedono la realizzazione di un film tratto dal “Satyricon” di Petronio, e alle lusinghe
della critica, che aveva da tempo indicato i collegamenti tra il classico della
letteratura latina e la descrizione della Roma moderna e parimenti corrotta di
Fellini, quest’ultimo realizza infine questo progetto a lungo covato,
rifiutando però tanto le facili tentazioni commerciali quanto, soprattutto, le rigide
convenzioni dei film storici in costume. La sua dichiarata ambizione è quella
di girare un film di “fantacoscienza”, cioè di rievocare il mondo romano in
termini immaginari, inventandone una versione assolutamente personale, nella
quale prevale, come ormai d’abitudine, la dimensione onirica. Il risultato è un
film sconcertante ed affascinante, ora sfavillante ora funereo, una sorta di
viaggio allucinatorio nell’antichità, influenzato dai nuovi fermenti sociali
postsessantottini (i due protagonisti ricordano due hippies, nella loro ambigua
celebrazione di ogni libertà, anche sessuale), con sequenze memorabili per genio
visionario e originalità di concezione. I due protagonisti sono una sorta di “vitelloni”
ante litteram, il cui itinerario picaresco, magicamente sospeso tra sgradevole
e sublime, assume i contorni di una sfumata riflessione sul senso della vita terrena
che, pur riferendosi al tramonto dell’età imperiale della Roma antica, intende
parlare dell’oggi. Provocatorio nello stile ed esteticamente opulento di quella
ricchezza eccessiva che solo i geni riescono a raggiungere senza scadere nel patetico,
è un’opera così fortemente sperimentale dal punto di vista della sintassi
narrativa che lasciò la critica spiazzata e non venne capita dal pubblico. Le
forti simbologie oniriche e la patina dionisiaca, che stinge nel surreale, ne
fanno un magnifico ermetico trattato “fantastorico” che attinge alla materia
oscura dei sogni per mostrare un mondo decadente, eccessivo e spaventoso,
ricollocabile in un qualunque contesto di umano edonismo, senza bisogno di una
reale dislocazione temporale o sociale. Anche se non ascrivibile nei grandi
capolavori dell’autore, perché sfilacciato e disomogeneo, resta un film di
assoluto valore artistico e di grande fascino figurativo, un balzo sfrenato nelle
leggi prospettiche per idolatrare l’immagine, le scenografie, glorificandole
con fantasiosa esuberanza. In questo pingue baccanale visivo vanno citate
almeno due sequenze straordinarie come la morte del poeta Eumolpo e l’intera
scena ambientata nella villa dei suicidi. E meritano altresì una menzione
speciale le scenografie di Danilo Donati, a cui ha collaborato attivamente lo
stesso Fellini in fase di ideazione concettuale.
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