venerdì 8 gennaio 2016

Il processo (Le Procès, 1962) di Orson Welles

Josef K., impiegato anonimo e rispettabile, viene improvvisamente arrestato, condotto in tribunale e processato senza che gliene venga rivelata la motivazione. Cerca in tutti i modi di ribellarsi e far valere i suoi diritti d’innocente ma, ben presto, si rende conto di essere finito in un assurdo ingranaggio, assai più grande di lui, che rischia di stritolarlo. Dal celebre romanzo omonimo di Franz Kafka, il grande Maestro americano ha tratto un adattamento ingegnoso, sconvolgente, visionario e, a suo modo, “profetico”, scegliendo di riadattarlo in età contemporanea. Realizzato in totale autonomia rispetto al sistema delle major hollywoodiane e con le consuete traversie produttive dovute alla difficoltà di reperire i fondi necessari, è un denso apologo sui mali del progresso, sulla spersonalizzazione dell’essere umano dovuta all’uso ingombrante delle macchine, fino alla totale perdita di identità in un mondo che sembra dominato dal caos. Dal punto di vista estetico è un capolavoro, visivamente stupefacente e carico di virtuosismi stilistici nell’uso della fotografia in bianco e nero con forte contrasto espressionista, e nelle tecniche di distorsione delle immagini attraverso il grandangolo, per suggerire il senso di straniamento e le minacciose atmosfere surreali kafkiane. Le destrezze formali, di cui Welles era padrone, e l’uso sapiente delle maestose scenografie, spesso inquadrate in prospettiva sghemba, inducono un senso di minaccia agghiacciante che immerge lo spettatore in un universo allucinato, ovvero nel medesimo, terribile incubo vissuto dal protagonista: l’innocente che finisce coinvolto in una terribile macchinazione ai suoi danni senza capirne il motivo. Il Sistema beffardo che condanna K. è freddo e spettrale, popolato da figure da incubo, simboli funesti e senza volto, faccendieri pedanti, galoppini di un potere amorale, tutti ugualmente spersonalizzati e conniventi con una volontà superiore, incline al male fine a se stesso, che, quindi, non necessita di motivazioni. Per quanto non del tutto fedele rispetto al romanzo ispiratore, la rilettura di Welles è geniale, apocalittica, claustrofobica, al punto da divenire un definitivo apologo sulla follia e sull’inevitabilità del Caos, padrone assoluto del nostro destino contro cui è inutile opporsi. E’ uno dei più intensi e disperati requiem dell’uomo contemporaneo di fronte al gioco totalitario del Potere oligarchico. Tra Orwell e Lang, il geniale regista rilegge Kafka e ci consegna una memorabile tragedia dell’assurdo, tutta giocata sul filo del paradosso, che lascia atterriti oggi come allora. Con un cast di prim’ordine (Anthony Perkins, Romy Schneider, Jeanne Moreau, Elsa Martinelli e lo stesso Orson Welles nel piccolo ruolo dell’avvocato), l’opera divise la critica, esaltato in Europa denigrato in America, e spiazzò il pubblico che non ne comprese appieno la portata immaginifica e lungimirante. E’ rimasta molto famosa la sequenza illustrata iniziale, realizzata da Alexander Alexeieff mediante la tecnica della "Pinscreen animation", tramite disegni chiaro-scuri ottenuti con l'inserimento su una lastra di migliaia di chiodini, illuminati di sbieco in modo da creare sulla superficie della stessa un suggestivo effetto ombra.

Voto:
voto: 4,5/5

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