giovedì 21 gennaio 2016

Il ponte delle spie (Bridge of Spies, 2015) di Steven Spielberg

Negli anni ’50, in piena guerra fredda, l’avvocato assicurativo James B. Donovan viene chiamato a difendere Rudolf Abel, spia sovietica infiltrata negli Stati Uniti, e, per questo, diventa il parafulmine del diffuso disprezzo popolare nei confronti del nemico comunista. Per nulla intimorito, sebbene osteggiato dalla sua stessa famiglia, l’integerrimo avvocato stabilisce un rapporto con la persona Abel, riconoscendone le molte qualità, e si batte come un leone, nonostante la causa sia già persa in partenza, per difenderne i diritti civili elementari. Quando un giovane pilota americano, sorpreso in missione segreta oltre cortina, cade nelle mani dei russi, si prospetta la possibilità di uno scambio: il vecchio Abel per lo sfortunato tenente. Il compito di gestire il difficile negoziato, nella Berlino orientale in cui sta sorgendo il “muro della vergogna”, viene affidato all’irreprensibile Donovan. Opus n. 29 di Steven Spielberg, tratto da una sceneggiatura dei fratelli Coen e diretto con la consueta grande perizia tecnica, che vede una nuova incursione del grande regista di Cincinnati nella Storia, quella, recente, della così detta “guerra fredda” tra il blocco occidentale, filoamericano, e quello comunista, filosovietico. I meriti maggiori di quest’opera risiedono, principalmente, nella sontuosa ricostruzione storico ambientale, impeccabile e dettagliata. L’autore riesce, infatti, ad immergerci totalmente nell’atmosfera di quegli anni, con i due schieramenti contrapposti che rappresentavano due opposte concezioni di intendere la società. Erano anni dominati dalla paura dell’atomica, dal sospetto verso lo straniero, dall’ossessione compulsiva di essere spiati. Ma oltre questo, e dopo una pregevole introduzione dal sapore hitchcockiano, il film prende la strada, canonica, di un elogio didascalico e zeppo di retorica edificante dell’american way of life, incarnato dalla figura di Donovan (Tom Hanks), uomo “tutto d’un pezzo”, dai solidi principi e dalla morale granitica. Ora moraleggiante, ora ampolloso, il film trova i suoi momenti migliori della seconda parte nei fugaci inserti di surreale ironia, frutto della sceneggiatura dei Coen, che fanno da contraltare alla monolitica solidità del personaggio di Hanks, che dispensa etica a profusione dal suo piedistallo di salde certezze. Chi ha paragonato la coppia Spielberg-Hanks, giunti qui alla quarta collaborazione professionale, a quella, celeberrima, Capra-Stewart, per il consolante buonismo che trasuda dalle rispettive opere, non è lontano dalla verità. Nel cast svetta Mark Rylance, nel ruolo di Abel, che mette in ombra un ingessato Tom Hanks, e suggerisce un approccio saggiamente disincantato, praticamente impassibile, rispetto alle turbolenze del mondo. Suggestiva colonna sonora di Thomas Newman, che ha sostituito in extremis John Williams, abituale e storico collaboratore del regista.

Voto:
voto: 3/5

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