Negli anni ’50, in piena
guerra fredda, l’avvocato assicurativo James B. Donovan viene chiamato a
difendere Rudolf Abel, spia sovietica infiltrata negli Stati Uniti, e, per
questo, diventa il parafulmine del diffuso disprezzo popolare nei confronti del
nemico comunista. Per nulla intimorito, sebbene osteggiato dalla sua stessa
famiglia, l’integerrimo avvocato stabilisce un rapporto con la persona Abel,
riconoscendone le molte qualità, e si batte come un leone, nonostante la causa
sia già persa in partenza, per difenderne i diritti civili elementari. Quando
un giovane pilota americano, sorpreso in missione segreta oltre cortina, cade
nelle mani dei russi, si prospetta la possibilità di uno scambio: il vecchio
Abel per lo sfortunato tenente. Il compito di gestire il difficile negoziato,
nella Berlino orientale in cui sta sorgendo il “muro della vergogna”, viene
affidato all’irreprensibile Donovan. Opus n. 29 di Steven Spielberg, tratto da
una sceneggiatura dei fratelli Coen e diretto con la consueta grande perizia tecnica,
che vede una nuova incursione del grande regista di Cincinnati nella Storia,
quella, recente, della così detta “guerra fredda” tra il blocco occidentale,
filoamericano, e quello comunista, filosovietico. I meriti maggiori di
quest’opera risiedono, principalmente, nella sontuosa ricostruzione storico
ambientale, impeccabile e dettagliata. L’autore riesce, infatti, ad immergerci
totalmente nell’atmosfera di quegli anni, con i due schieramenti contrapposti
che rappresentavano due opposte concezioni di intendere la società. Erano anni
dominati dalla paura dell’atomica, dal sospetto verso lo straniero, dall’ossessione
compulsiva di essere spiati. Ma oltre questo, e dopo una pregevole introduzione
dal sapore hitchcockiano, il film prende la strada, canonica, di un elogio
didascalico e zeppo di retorica edificante dell’american way of life, incarnato dalla figura di Donovan (Tom
Hanks), uomo “tutto d’un pezzo”, dai solidi principi e dalla morale granitica.
Ora moraleggiante, ora ampolloso, il film trova i suoi momenti migliori della
seconda parte nei fugaci inserti di surreale ironia, frutto della sceneggiatura
dei Coen, che fanno da contraltare alla monolitica solidità del personaggio di
Hanks, che dispensa etica a profusione dal suo piedistallo di salde certezze.
Chi ha paragonato la coppia Spielberg-Hanks, giunti qui alla quarta
collaborazione professionale, a quella, celeberrima, Capra-Stewart, per il
consolante buonismo che trasuda dalle rispettive opere, non è lontano dalla
verità. Nel cast svetta Mark Rylance, nel ruolo di Abel, che mette in ombra un
ingessato Tom Hanks, e suggerisce un approccio saggiamente disincantato,
praticamente impassibile, rispetto alle turbolenze del mondo. Suggestiva
colonna sonora di Thomas Newman, che ha sostituito in extremis John Williams,
abituale e storico collaboratore del regista.
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