Kårin è una ragazza
schizofrenica, reduce da un ricovero in ospedale ed affetta da allucinazioni,
che trascorre una vacanza estiva su un’isola ventosa del mar Baltico insieme ai
suoi familiari. La donna non trova aiuto né nel padre scrittore (egoista e
freddo), né nel marito medico (condiscendente ma inadeguato) e, nella sua
disperata ricerca d’amore, finisce per consumare un rapporto incestuoso col
fratello, prima di cadere nuovamente vittima delle sue visioni di stampo
religioso. Capolavoro ermetico di Bergman, che inaugura la sua famosa, e
discussa, “trilogia” religiosa del silenzio, inteso come silenzio di Dio. In
essa il regista affronta in maniera indiretta, ellittica e reticente la
tematica religiosa, attraverso storie molto diverse tra loro, ed accomunate da
uno stile austero e criptico, caratterizzato dalla complessità psicologica dei
personaggi, dall’attenzione all’amore in tutte le sue espressioni, spirituali e
soprattutto sessuali. Sono film difficili, che rendono la lettura dell’opera
complessiva del regista molto più controversa, moltiplicando le problematiche e
le loro sfaccettature da un lato, e, dall’altro, gli angoli visuali di
osservazione e le prospettive per lo spettatore. La concentrazione dell’autore
su pochi personaggi ne fa dei veri e propri drammi da camera (con riferimento
ai “Kammerspiel” del cinema muto tedesco espressionista, ma anche alle opere di
August Strindberg), di stampo teatrale, caratterizzati da una strenua
attenzione al disegno psicologico, spesso contorto ed abnorme, dei pochi
protagonisti, dei quali il regista sembra volere esplorare i recessi
dell’anima, tanto che gli fu attribuita l’appropriata definizione di “speleologo
delle coscienze”, alla ricerca di una spiritualità nascosta tra i vizi e le
passioni, che sono retaggio della carne e delle sue debolezze. In Come in uno specchio (che trae il suo
titolo dalla Prima Lettera di san Paolo ai Corinti) abbiamo quattro personaggi,
un quartetto di figure tutte a loro modo disperate, immerse in un’atmosfera da
incubo, nel vano tentativo di cambiare se stesse alla ricerca di un futuro.
Ciascuno di essi rappresenta uno “specchio” per le angosce degli altri, la
forma simbolica della sconfitta interiore e dell’incapacità di comunicare. Ambientato
sull’isola di Faaroe (dove il regista porrà anche la sua dimora), il film
appare in perfetta sintonia con il tema dell’incomunicabilità di Antonioni (L’avventura
è del 1960), argomento particolarmente sentito dal cinema europeo dell’epoca, e
segna anche l’avvicinamento di Bergman a uno stile più ascetico ed ermetico
(che richiama, ma non imita, quello di Bresson). E’ uno dei più sconvolgenti ed
angoscianti film sulla follia mai realizzati, un rigoroso trattato sull’isteria
religiosa che si avvale di una cornice stilistica sontuosa (il bianco e nero
del fidato Sven Nykvist è tanto solenne quanto spettrale) e di una serie di
invenzioni visive di alto magistero figurativo (su tutte la sequenza della
visione di Dio in forma di ragno). Una menzione speciale va anche data all’intero
consesso degli interpreti (Harriet Andersson, Max von Sydow, Gunnar
Björnstrand, Lars Passgård), tutti straordinari. Fu premiato con l’Oscar al
miglior film straniero nel 1961.
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