martedì 5 gennaio 2016

Come in uno specchio (Sasom i en spegel, 1961) di Ingmar Bergman

Kårin è una ragazza schizofrenica, reduce da un ricovero in ospedale ed affetta da allucinazioni, che trascorre una vacanza estiva su un’isola ventosa del mar Baltico insieme ai suoi familiari. La donna non trova aiuto né nel padre scrittore (egoista e freddo), né nel marito medico (condiscendente ma inadeguato) e, nella sua disperata ricerca d’amore, finisce per consumare un rapporto incestuoso col fratello, prima di cadere nuovamente vittima delle sue visioni di stampo religioso. Capolavoro ermetico di Bergman, che inaugura la sua famosa, e discussa, “trilogia” religiosa del silenzio, inteso come silenzio di Dio. In essa il regista affronta in maniera indiretta, ellittica e reticente la tematica religiosa, attraverso storie molto diverse tra loro, ed accomunate da uno stile austero e criptico, caratterizzato dalla complessità psicologica dei personaggi, dall’attenzione all’amore in tutte le sue espressioni, spirituali e soprattutto sessuali. Sono film difficili, che rendono la lettura dell’opera complessiva del regista molto più controversa, moltiplicando le problematiche e le loro sfaccettature da un lato, e, dall’altro, gli angoli visuali di osservazione e le prospettive per lo spettatore. La concentrazione dell’autore su pochi personaggi ne fa dei veri e propri drammi da camera (con riferimento ai “Kammerspiel” del cinema muto tedesco espressionista, ma anche alle opere di August Strindberg), di stampo teatrale, caratterizzati da una strenua attenzione al disegno psicologico, spesso contorto ed abnorme, dei pochi protagonisti, dei quali il regista sembra volere esplorare i recessi dell’anima, tanto che gli fu attribuita l’appropriata definizione di “speleologo delle coscienze”, alla ricerca di una spiritualità nascosta tra i vizi e le passioni, che sono retaggio della carne e delle sue debolezze. In Come in uno specchio (che trae il suo titolo dalla Prima Lettera di san Paolo ai Corinti) abbiamo quattro personaggi, un quartetto di figure tutte a loro modo disperate, immerse in un’atmosfera da incubo, nel vano tentativo di cambiare se stesse alla ricerca di un futuro. Ciascuno di essi rappresenta uno “specchio” per le angosce degli altri, la forma simbolica della sconfitta interiore e dell’incapacità di comunicare. Ambientato sull’isola di Faaroe (dove il regista porrà anche la sua dimora), il film appare in perfetta sintonia con il tema dell’incomunicabilità di Antonioni (L’avventura è del 1960), argomento particolarmente sentito dal cinema europeo dell’epoca, e segna anche l’avvicinamento di Bergman a uno stile più ascetico ed ermetico (che richiama, ma non imita, quello di Bresson). E’ uno dei più sconvolgenti ed angoscianti film sulla follia mai realizzati, un rigoroso trattato sull’isteria religiosa che si avvale di una cornice stilistica sontuosa (il bianco e nero del fidato Sven Nykvist è tanto solenne quanto spettrale) e di una serie di invenzioni visive di alto magistero figurativo (su tutte la sequenza della visione di Dio in forma di ragno). Una menzione speciale va anche data all’intero consesso degli interpreti (Harriet Andersson, Max von Sydow, Gunnar Björnstrand, Lars Passgård), tutti straordinari. Fu premiato con l’Oscar al miglior film straniero nel 1961.

Voto:
voto: 4,5/5

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