mercoledì 27 gennaio 2016

Room (Room, 2015) di Lenny Abrahamson

Il piccolo Jack vive dalla nascita in una piccola stanza con sua madre Joy e quello è tutto il suo mondo, il ristretto luogo in cui può spaziare solo grazie alla forza della fantasia tipica dell’infanzia. Un letto, un lavandino, un televisore, un lucernario sul soffitto e l’armadio in cui si nasconde quando, la notte, arriva “old” Nick per dormire con sua madre. Ma quando Jack compie cinque anni, Joy gli svela un terribile segreto: esiste un altro mondo, immenso, promettente e misterioso, al di fuori della “stanza” ed il piccolo dovrà trovare la forza per aiutarla a liberarsi da Nick, un maniaco psicopatico che ha rapito la ragazza sette anni prima, costringendola a vivere, come sua prigioniera, in un capanno appositamente attrezzato per la loro nefasta “cattività”. Dal romanzo "Stanza, letto, armadio, specchio" di Emma Donoghue, Abrahamson ha tratto questo cupo e potente dramma psicologico dai toni oscuri, diviso in due parti profondamente diverse e con il climax emotivo assestato nel mezzo. Nella prima tranche, straordinaria, viviamo la rigida quotidianità dei due malcapitati attraverso lo sguardo infantile del piccolo Jack, cresciuto da Joy in un mondo di illusioni per essere protetto dalla terribile situazione. La forza di quello sguardo è quella della vita che sboccia, vigorosa e incontenibile, capace di trovare il buono anche nelle situazioni più tragiche ed oscure, capace di volare in alto anche in presenza di una gravosa zavorra, capace di tramutare lo squallore in magia, abbattendo tutte le barriere limitanti. Grazie all’eccellente recitazione dei due protagonisti (una intensa Brie Larson ed il sorprendente Jacob Tremblay) questo segmento dell’opera ci regala una miriade di emozioni sincere, con un costante crescendo della suspense nella preparazione del piano di fuga, che troverà il vertice del patos esattamente a metà film. Da lì in poi la pellicola diventa un’altra cosa, passando radicalmente dal thriller emozionale ad un dramma interiore sfumato e sottile, che riflette sulla difficoltà dei rapporti umani, sulla possibilità di poter avere una vita normale dopo un trauma così profondo e sul relativismo del giudizio umano: il mondo esterno, apparentemente allettante, potrebbe rivelarsi solo una prigione più grande in assenza delle giuste condizioni di benessere psicologico nelle relazioni con gli altri. In questo secondo segmento, più pretenzioso, più sofferto e, tutto sommato, meno interessante perché più canonico, la brusca virata narrativa mantiene inalterato il tono stilistico e si cristallizza in un complemento speculare del primo, che resta però assai più ricco di invenzioni e ben più coinvolgente. Ma anche qui assistiamo, ammirati, ad un magistrale gioco a due (tra una madre e suo figlio) di altissimo spessore recitativo, sempre misurato ed equilibrato, ben attento a non scivolare mai nelle tentazioni del sentimentalismo effettistico. Il risultato complessivo è un film di pregevole fattura, interessante, intelligente e sopra la media rispetto agli standard del cinema americano contemporaneo. Ulteriore riprova che i risultati più alti della produzione a stelle e strisce arrivano quasi sempre dai progetti “minori”, più intimi, più sensibili e più attenti alla densità del contenuto che alla spettacolarità della forma. E’ stato candidato, come outsider, agli Oscar 2016 per il miglior film, regia, attrice e sceneggiatura non originale (ad opera dell’autrice del romanzo ispiratore, Emma Donoghue).

Voto:
voto: 4/5

Nessun commento:

Posta un commento