martedì 19 gennaio 2016

The Hateful Eight (The Hateful Eight, 2015) di Quentin Tarantino

Wyoming, qualche anno dopo la fine della guerra civile americana. Una diligenza avanza nella neve diretta verso Red Rock. Su di essa viaggia il cacciatore di taglie John Ruth che deve condurre al patibolo la pericolosa prigioniera Daisy Domergue, membro di una banda di fuorilegge senza scrupoli. Al convoglio si uniscono il Maggiore Marquis Warren, bounty killer di colore, e l’avventuriero Chris Mannix, che si presenta come nuovo sceriffo di Red Rock. Una bufera di neve epocale li costringe a fermarsi nella “merceria” di Minnie, un rifugio montano concepito per l’accoglienza dei viaggiatori e dei cavalli, nell’attesa che la tempesta si plachi. Ma qui, in luogo della proprietaria, trovano quattro uomini misteriosi, il rude messicano Bob, il logorroico boia Oswaldo Mobray, il vecchio Generale confederato Sanford Smithers e l’ambiguo pistolero Joe Gage, con cui saranno costretti a condividere l’angusto spazio del bungalow. Otto “bastardi” impenitenti disposti a tutto, rinchiusi, loro malgrado, in un ambiente ristretto ed isolato nelle terre selvagge del nord America, mentre fuori infuria una terribile bufera di neve che rende impossibile ogni via di fuga. E’ questo lo spunto narrativo alla base di questo straordinario western pulp dai toni thriller, claustrofobico e crudele, che costituisce l’ennesimo caleidoscopio di generi, geniale e dissacrante, realizzato da Quentin Tarantino. Tra immagini di grande potenza evocativa (tutti gli esterni sulle pianure innevate), serrati dialoghi di sferzante cinismo, momenti di opprimente tensione perfidamente dilatati in attesa di una minaccia imminente, l’autore spazia da par suo attraverso i generi cinematografici passando, impunemente, da Agatha Cristie (i riferimenti al suo capolavoro “Dieci piccoli indiani” sono evidentissimi) allo “spaghetti western”, dallo splatter estremo al sottile dramma “da camera”, dai “b-movie” iperviolenti degli anni ‘70 all’apologo antropologico in nero. Spiazzando più volte lo spettatore nella seconda parte con una serie di magistrali ribaltamenti narrativi, l’estroso regista arriva al cruento finale, pur non inatteso, con perfida cattiveria, tra violenza enfatica, che vira nel fumetto, ed un macabro utilizzo del grottesco volto a mitigare il tutto, trasformandolo in un impagabile “circo” dell’iperbole, il cui fine ultimo è, come sempre, un’amara critica alla natura umana. Il western, quello epico e mitologico dei grandi spazi sterminati, non si vede mai, è ben chiuso fuori dall’angusto spazio scenico dell’azione, dietro una porta bloccata da due assi inchiodate, forse celato sotto la coltre impietosa di neve. Nell’interno della “merceria” di Minnie non ci sono eroi per cui parteggiare, né modelli da imitare o da prendere da esempio, non esiste onore né gloria, ma solo uno sporco manipolo di umanità dannata, il cui inferno personale è quello di una nazione, l’America della vecchia frontiera, costruita sul sangue, sulla prevaricazione e sulla violenza. E la Storia (quella con la “S” maiuscola) appare e scompare a tratti, nel tragico scontro che si consuma dentro la locanda, i cui protagonisti sono, evidentemente, figure archetipe di un immaginario iconografico distorto. La Storia che, quando irrompe, contribuisce ad arricchire il gioco, abilmente condotto dall’autore, su quel filo sottile tra realtà e finzione, cronaca e leggenda, in cui nessuno è ciò che appare o che dice di essere. Geniale ed emblematico, in tal senso, l’utilizzo della lettera di Lincoln per sottolineare questo concetto. Folgorante e sfrontato, teso e feroce, questo nuovo capolavoro di Tarantino è un’opera inevitabilmente di nicchia, alla maniera dello splendido e sottovalutato Jackie Brown, un progetto più intimo e “sotterraneo”, totalmente distante dallo logiche mainstream. Nel ricco cast svettano il solito Samuel L. Jackson, carismatico e istrionico ai massimi livelli, e la sorprendente Jennifer Jason Leigh, che tratteggia una figura femminile sgradevole e diabolica che farà sicuramente “inorridire” i benpensanti. Nella sontuosa confezione tecnica vanno segnalate la splendida fotografia in 70 mm di Robert Richardson (l’unica concessione estetica al mito del vecchio West) e la raffinata colonna sonora introspettiva di Ennio Morricone, alla prima collaborazione “originale” con il regista, entrambe onorate con la meritata candidatura ai premi Oscar 2016. Delle due nomination è andata a buon fine quella per Morricone, finalmente premiato dall'Academy con quell'Oscar che tante volte, in passato, gli era stato negato. In una serata indimenticabile per tutto il cinema italiano il nostro grande Maestro, all'età di 87 anni, ha ricevuto l'ambita statuetta tra l'ovazione generale del Dolby Theatre di Los Angeles, che gli ha tributato la meritata standing ovation. Tarantino consolida una volta di più la sua posizione di maggior talento americano nella rivisitazione colta e visionaria del così detto “cinema basso”, consacrando i “generi” su una ribalta di tale dignità e qualità artistica, che non ha precedenti. Di sicuro non piacerà a tutti, ma quest’opera atipica e spiazzante contiene l’essenza del “tarantinismo” nella sua forma più pura.

Voto:
voto: 4,5/5

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