Wyoming, qualche anno
dopo la fine della guerra civile americana. Una diligenza avanza nella neve
diretta verso Red Rock. Su di essa viaggia il cacciatore di taglie John Ruth
che deve condurre al patibolo la pericolosa prigioniera Daisy Domergue, membro
di una banda di fuorilegge senza scrupoli. Al convoglio si uniscono il Maggiore
Marquis Warren, bounty killer di colore, e l’avventuriero Chris Mannix, che si
presenta come nuovo sceriffo di Red Rock. Una bufera di neve epocale li
costringe a fermarsi nella “merceria” di Minnie, un rifugio montano concepito
per l’accoglienza dei viaggiatori e dei cavalli, nell’attesa che la tempesta si
plachi. Ma qui, in luogo della proprietaria, trovano quattro uomini misteriosi,
il rude messicano Bob, il logorroico boia Oswaldo Mobray, il vecchio Generale
confederato Sanford Smithers e l’ambiguo pistolero Joe Gage, con cui saranno
costretti a condividere l’angusto spazio del bungalow. Otto “bastardi”
impenitenti disposti a tutto, rinchiusi, loro malgrado, in un ambiente
ristretto ed isolato nelle terre selvagge del nord America, mentre fuori
infuria una terribile bufera di neve che rende impossibile ogni via di fuga. E’
questo lo spunto narrativo alla base di questo straordinario western pulp dai
toni thriller, claustrofobico e crudele, che costituisce l’ennesimo
caleidoscopio di generi, geniale e dissacrante, realizzato da Quentin Tarantino.
Tra immagini di grande potenza evocativa (tutti gli esterni sulle pianure
innevate), serrati dialoghi di sferzante cinismo, momenti di opprimente
tensione perfidamente dilatati in attesa di una minaccia imminente, l’autore
spazia da par suo attraverso i generi cinematografici passando, impunemente, da
Agatha Cristie (i riferimenti al suo capolavoro “Dieci piccoli indiani” sono
evidentissimi) allo “spaghetti western”, dallo splatter estremo al sottile
dramma “da camera”, dai “b-movie” iperviolenti degli anni ‘70 all’apologo
antropologico in nero. Spiazzando più volte lo spettatore nella seconda parte
con una serie di magistrali ribaltamenti narrativi, l’estroso regista arriva al
cruento finale, pur non inatteso, con perfida cattiveria, tra violenza
enfatica, che vira nel fumetto, ed un macabro utilizzo del grottesco volto
a mitigare il tutto, trasformandolo in un impagabile “circo” dell’iperbole, il
cui fine ultimo è, come sempre, un’amara critica alla natura umana. Il western,
quello epico e mitologico dei grandi spazi sterminati, non si vede mai, è ben
chiuso fuori dall’angusto spazio scenico dell’azione, dietro una porta bloccata
da due assi inchiodate, forse celato sotto la coltre impietosa di neve.
Nell’interno della “merceria” di Minnie non ci sono eroi per cui parteggiare,
né modelli da imitare o da prendere da esempio, non esiste onore né gloria, ma
solo uno sporco manipolo di umanità dannata, il cui inferno personale è quello
di una nazione, l’America della vecchia frontiera, costruita sul sangue, sulla
prevaricazione e sulla violenza. E la
Storia (quella con la “S” maiuscola) appare e scompare a
tratti, nel tragico scontro che si consuma dentro la locanda, i cui protagonisti
sono, evidentemente, figure archetipe di un immaginario iconografico distorto. La Storia che, quando irrompe,
contribuisce ad arricchire il gioco, abilmente condotto dall’autore, su quel
filo sottile tra realtà e finzione, cronaca e leggenda, in cui nessuno è ciò
che appare o che dice di essere. Geniale ed emblematico, in tal senso,
l’utilizzo della lettera di Lincoln per sottolineare questo concetto. Folgorante
e sfrontato, teso e feroce, questo nuovo capolavoro di Tarantino è un’opera
inevitabilmente di nicchia, alla maniera dello splendido e sottovalutato Jackie
Brown, un progetto più intimo e “sotterraneo”, totalmente distante
dallo logiche mainstream. Nel ricco
cast svettano il solito Samuel L. Jackson, carismatico e istrionico ai massimi
livelli, e la sorprendente Jennifer Jason Leigh, che tratteggia una figura
femminile sgradevole e diabolica che farà sicuramente “inorridire” i
benpensanti. Nella sontuosa confezione tecnica vanno segnalate la splendida
fotografia in 70 mm
di Robert Richardson (l’unica concessione estetica al mito del vecchio West) e
la raffinata colonna sonora introspettiva di Ennio Morricone, alla prima
collaborazione “originale” con il regista, entrambe onorate con la meritata candidatura
ai premi Oscar 2016. Delle due nomination è andata a buon fine quella per Morricone, finalmente premiato dall'Academy con quell'Oscar che tante volte, in passato, gli era stato negato. In una serata indimenticabile per tutto il cinema italiano il nostro grande Maestro, all'età di 87 anni, ha ricevuto l'ambita statuetta tra l'ovazione generale del Dolby Theatre di Los Angeles, che gli ha tributato la meritata standing ovation. Tarantino consolida una volta di più la sua posizione di
maggior talento americano nella rivisitazione colta e visionaria del così detto
“cinema basso”, consacrando i “generi” su una ribalta di tale dignità e qualità
artistica, che non ha precedenti. Di sicuro non piacerà a tutti, ma quest’opera
atipica e spiazzante contiene l’essenza del “tarantinismo” nella sua forma più pura.
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