Vita, amori, dolori, eccessi
ed avventure di Giacomo Casanova, leggendario seduttore veneziano del ‘700. La
riduzione cinematografica delle “Memorie
scritte da lui stesso” di Casanova fu un progetto dalla gestazione lunga e
travagliata, anche a causa delle divergenze tra Fellini e la produzione in
merito alla scelta, fondamentale, dell’attore protagonista. Si fecero tanti
nomi eccellenti: Robert Redford, Michael Caine, Jack Nicholson, Alberto Sordi,
Gian Maria Volontè ma, alla fine, il regista riminese optò per Donald
Sutherland, il cui volto fu opportunamente trasformato in fase di trucco per
aumentare la somiglianza con l’avventuriero italiano. Già nel titolo il film
denunzia un narcisismo pericolosamente sbilanciato sul versante del
compiacimento d’autore e, manco a dirlo, Fellini manipola ampiamente il testo
letterario, stravolgendolo secondo le proprie ossessioni e facendo del
protagonista una vittima della sua fama di rubacuori, una sorta di forzato del
piacere impegnato in imprese amatorie prive di gioia, un uomo affascinante e
raffinato ma condannato ad un’attività sessuale competitiva, ossessiva e
ripetitiva. Coraggiosa e stimolante la scelta di girare il film interamente in
interni, ricostruendo la Venezia settecentesca, con il geniale e ardito estro
visionario tipicamente felliniano, negli studi di Cinecittà, avvalendosi di una
crew di professionisti straordinari,
in cui spicca il solito fedelissimo Danilo Donati, premiato per l’occasione con
l’Oscar ai costumi. Come sottolineato all’epoca dallo stesso Fellini la scelta
progettuale, congeniale al suo senso estetico, va in direzione opposta rispetto
a quanto fatto da Kubrick nel suo Barry
Lyndon, infatti il Maestro americano scelse un realismo epico fatto di
campi lunghi e luci naturali per rappresentare “l’età dei lumi”, invece il
nostro optò per un ridimensionamento artefatto di alto simbolismo fantastico,
una trasfigurazione artisticamente personale della storia, dei luoghi e dei
personaggi. Diviso in blocchi narrativi il film ondeggia tra toni lugubri e
barocchismi esasperati, tra invenzioni geniali e cadute di stile, tra orrido e
meraviglioso, ironico e sontuoso. L’apparente voluttà funeraria, l’oppressivo
senso di morte che domina molte sequenze, è solo la patina di un’opera assai più
complessa, una rapsodia tenuta miracolosamente insieme dall’unità di visione
dell’autore che riesce, nonostante a tutto, a dominarne il contenuto,
plasmandolo in un forsennato disegno psicologico, il cui fine ultimo è quello
di mostrare, non senza fertili ambiguità, il rapporto nevrotico tra il
protagonista e la donna, con particolare enfasi rivolta all’eros, all’organo sessuale
femminile, qui visto come un vortice, un abisso che risucchia le ossessioni del
maschio. Magicamente sospeso tra tenerezza e orripilanza, è un film ammaliante,
felliniano fin nel midollo, con lampi di poesia altissimi che illuminano le
ambientazioni lugubri. Ed è anche uno dei migliori risultati ottenuti dal
regista nella seconda fase della sua straordinaria carriera.
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