Un pastore protestante
ha perso la fede al punto da non riuscire più ad essere di aiuto ai suoi
pochissimi parrocchiani. L’uomo respinge anche l’amore di Marta, una donna
atea, e, alla fine del film, officia, senza più alcuna speranza che Dio gli
parli, la messa della sera nella chiesa deserta. E’ forse il film
stilisticamente più radicale del Maestro svedese, un’opera di assoluta
essenzialità e di altissimo valore simbolico, fondamentalmente basata su due soli
personaggi e sui loro, a volte lunghissimi, primi piani (il regista si
concentra ossessivamente sui loro volti, quasi a voler vedere “oltre” gli
stessi). Girato quasi tutto in interni spogli e grigi, è una delle pellicole
più rigorose, più dense, ma anche più ostiche, di Bergman, tanto da essere uno
dei preferiti dai suoi fans più integralisti. Probabilmente influenzato dal
cinema di Bresson, è un dramma “da camera” possente ed impietoso, che sotto la
patina ovattata ed austera cela complessità tematiche e riflessioni
esistenziali di altissimo spessore. Divise la critica, che pur ne riconobbe l’altissimo
rigore formale, per il suo compassato ermetismo e per il finale enigmatico, ma
è indubbio, oggi più che mai, che rappresenta uno dei vertici assoluti nel
novero delle dissertazioni sulla fede religiosa viste sul grande schermo.
Principalmente interessato al percorso individuale di un uomo dall’animo
infranto, che soffre per il silenzio di Dio, l’autore traccia un memorabile
trattato spirituale, sospeso tra umanesimo ed ascetismo, tormento e dubbio,
ricerca ed incomunicabilità. Nel contesto, pur artisticamente altissimo, della trilogia religiosa bergmaniana, questo film ne rappresenta l'apice, solido, esaustivo, monolitico. Tra gli interpreti, come al solito bravissimi e
diretti in maniera egregia, svetta Gunnar Björnstrand nel ruolo più intenso
della sua carriera. Per ammissione stessa del regista questa fu la preferita tra tutte
le sue opere.
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