martedì 5 gennaio 2016

Luci d’inverno (Nattvardsgasterna, 1962) di Ingmar Bergman

Un pastore protestante ha perso la fede al punto da non riuscire più ad essere di aiuto ai suoi pochissimi parrocchiani. L’uomo respinge anche l’amore di Marta, una donna atea, e, alla fine del film, officia, senza più alcuna speranza che Dio gli parli, la messa della sera nella chiesa deserta. E’ forse il film stilisticamente più radicale del Maestro svedese, un’opera di assoluta essenzialità e di altissimo valore simbolico, fondamentalmente basata su due soli personaggi e sui loro, a volte lunghissimi, primi piani (il regista si concentra ossessivamente sui loro volti, quasi a voler vedere “oltre” gli stessi). Girato quasi tutto in interni spogli e grigi, è una delle pellicole più rigorose, più dense, ma anche più ostiche, di Bergman, tanto da essere uno dei preferiti dai suoi fans più integralisti. Probabilmente influenzato dal cinema di Bresson, è un dramma “da camera” possente ed impietoso, che sotto la patina ovattata ed austera cela complessità tematiche e riflessioni esistenziali di altissimo spessore. Divise la critica, che pur ne riconobbe l’altissimo rigore formale, per il suo compassato ermetismo e per il finale enigmatico, ma è indubbio, oggi più che mai, che rappresenta uno dei vertici assoluti nel novero delle dissertazioni sulla fede religiosa viste sul grande schermo. Principalmente interessato al percorso individuale di un uomo dall’animo infranto, che soffre per il silenzio di Dio, l’autore traccia un memorabile trattato spirituale, sospeso tra umanesimo ed ascetismo, tormento e dubbio, ricerca ed incomunicabilità. Nel contesto, pur artisticamente altissimo, della trilogia religiosa bergmaniana, questo film ne rappresenta l'apice, solido, esaustivo, monolitico. Tra gli interpreti, come al solito bravissimi e diretti in maniera egregia, svetta Gunnar Björnstrand nel ruolo più intenso della sua carriera. Per ammissione stessa del regista questa fu la preferita tra tutte le sue opere.

Voto:
voto: 5/5

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