mercoledì 17 maggio 2017

Giulietta degli spiriti (Giulietta degli spiriti, 1965) di Federico Fellini

Giulietta, signora cattolica dell’alta borghesia romana, mentre trascorre una vacanza estiva a Fregene, sente che il suo matrimonio con Giorgio, apparentemente impeccabile, sta andando in pezzi a causa della cortese indifferenza di lui, che, probabilmente, la tradisce con altre donne. Silentemente disperata la donna si affida ad un veggente indiano che la fa partecipare a delle sedute spiritiche e per lei inizia così una profonda crisi d’identità, tra fantasmi di un mondo immaginario, incubi dal passato, delusioni esistenziali, tentazioni lussuriose, sogni ad occhi aperti e tentativi di dialogo con il marito e la sua amante. Alla fine Giulietta saprà trovare una propria dimensione. Dopo il suo capolavoro assoluto , in cui l’autore ha tracciato una visionaria psicoanalisi onirica di sè stesso, Fellini prende adesso in esame il mondo interiore della moglie, Giulietta Masina, dando vita ad una sorta di versione al femminile del film precedente, che sarebbe stata probabilmente più apprezzabile se non fosse stato preceduta da un modello così eccezionale, rispetto al quale segna un inevitabile regresso artistico e creativo. Le fantasie di una casalinga benestante turbata dal tradimento del marito, ossessionata dai ricordi di un’educazione cattolica repressiva, tentata da pulsioni di emancipazione ma incapace di realizzarle, risultano inadeguate nel confronto con il complesso ordito psicoanalitico di che, non a caso, è unanimemente collocato tra i massimi capolavori della Storia del Cinema mondiale. Formalmente apprezzabile, specie per l’uso del colore (adottato in precedenza solo per l’episodio di Boccaccio ’70) e per alcune sequenze di acceso onirismo, il film sembra più il ripiegamento dell’autore in un autobiografismo già esplorato con maggiore originalità e compiutezza, che un’opera di autentica ispirazione, con il sospetto aggiuntivo di un patetico tentativo di risarcimento artistico verso la moglie Giulietta Masina, musa di passati successi come La strada e Le notti di Cabiria, ma del tutto esclusa dai trionfi di La dolce vita e . Purtroppo la stessa attrice si rivela molto a disagio (se non addirittura inadatta) nel ruolo, e, non ultimo, l’opera manca del fascino del film nel film, che contribuiva all’intrigante gioco di specchi di . I momenti visivamente geniali sono comunque presenti e l’estro figurativo ricorda, a tratti, quello dei tempi migliori, ma la sensazione generale che emerge è quella di un film fiacco, languido e confuso, con una protagonista non all’altezza del compito. Molto brava invece Sandra Milo (sempre a suo agio nei panni della donna lussuriosa), che venne premiata, per l’occasione, con il Nastro d’Argento. Nonostante un’accoglienza critica tiepida, il film ottenne comunque due candidature agli Oscar: per le scenografie e i costumi del bravo Piero Gherardi.

Voto:
voto: 3,5/5

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