mercoledì 24 maggio 2017

Song to Song (Song to Song, 2017) di Terrence Malick

Austin, Texas: il musicista BV ama, ricambiato, l’inquieta Faye, che a sua volta ha una torbida relazione sessuale con l’ambiguo Cook, potente produttore musicale carico di ego e di arroganza. Faye non sa scegliere tra i due uomini e, per quanto sembri preferire il più tranquillizzante BV, finisce sempre per cadere nuovamente tra le braccia di Cook. Tra seduzioni e tradimenti il gioco delle coppie continua a mutare assetto, con Cook che irretisce la bella cameriera Rhonda, fragile e sensuale, e BV che tronca con Faye per frequentare la più matura Amanda. Il nuovo film di Terrence Malick, ormai afflitto da evidente bulimia produttiva visto il copioso numero di pellicole che sforna in rapida sequenza, appartiene al medesimo filone stilistico inaugurato con l’acclamato The tree of life ed ha maggiori attinenze tematiche con il successivo (e meno riuscito) To the wonder. Stavolta però il Maestro americano, pur muovendosi nella stessa scia delle opere precedenti, cerca di sperimentare qualcosa di nuovo, scegliendo una storia più ordinaria (un triangolo amoroso che poi diventa quadrilatero, anzi pentagono), utilizzando una maggiore linearità diegetica e barattando il tipico stile errante e meditabondo con un maggiore dinamismo estetico, che si esplica attraverso un montaggio frenetico ed un furioso vigore visuale. Il risultato è però un film più semplice e, complessivamente, meno profondo e meno interessante rispetto al capostipite The tree of life o all’ipnotico ed elusivo Knight of Cups. La capacità malickiana di trasformare un affascinante racconto per immagini in un apologo antropologico ricco di implicazioni morali, spirituali ed esistenziali sul destino dell’uomo moderno nell’occidente capitalistico, resta comunque intatta e la pellicola merita ampiamente la visione e va, ovviamente, collocata bene al di sopra della media dei tanti prodotti convenzionali propinati dall’industria hollywoodiana. Però è innegabile che trattasi di un Malick minore, più dimesso e meno graffiante dal punto di vista filosofico e concettuale. Nel grande cast di stelle, che annovera Michael Fassbender, Ryan Gosling, Rooney Mara, Natalie Portman, Cate Blanchett e Val Kilmer, il personaggio più interessante è quello, mefistofelico, di Cook, a cui la fisicità aspra di Fassbender sa conferire il giusto fascino ruvido e “maledetto”. Spaesato Gosling, ornamentale la Mara, luminosa la Portman (che buca lo schermo ad ogni apparizione), bolso e untuoso Val Kilmer, mentre la Blanchett regala lampi di gran classe nelle poche volte in cui compare in scena. L’attrazione quasi irresistibile che le star di Hollywood provano per il reticente Malick, spesso disposte a lavorare anche gratis per lui e senza alcuna pretesa preventiva in merito al minutaggio di presenza in scena, la dice lunga sul carisma del regista. Un autentico vate cinematografico (uno degli ultimi a questo livello) che ha fatto dell’isolamento programmatico la sua fortuna e che sa ancora regalarci bagliori del suo immenso talento attraverso un unico grande poema per immagini che si clona e si autorigenera da sei anni a questa parte.

Voto:
voto: 3,5/5

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