giovedì 25 maggio 2017

Il piccolo grande uomo (Little Big Man, 1970) di Arthur Penn

Jack Crabb, un vecchio di 121 anni, rievoca con un giornalista la sua vita avventurosa nel selvaggio West. Cresciuto dai Cheyenne insieme a sua sorella più piccola, dopo che i due erano sopravvissuti ad un feroce attacco di predoni indiani, il nostro ritorna tra i bianchi da giovanotto, scopre (in ritardo) i fondamenti religiosi, i piaceri del sesso e finisce arruolato nell’esercito del generale Custer. Disgustato per gli eccidi gratuiti commessi dai soldati a danno di donne e bambini pellerossa, Crabb partecipa alla leggendaria battaglia di Little Big Horn ma si schiera dalla parte degli indiani, cercando di uccidere personalmente il generale Custer. Western anomalo e revisionista di Penn, tratto dal romanzo omonimo di Thomas Berger. Esattamente come il più cruento e controverso Soldato blu (1970) di Ralph Nelson, appartiene alla categoria di quei western “contro”, di gran moda all’inizio degli anni ’70 quasi a mo’ di postumo risarcimento morale, che si pongono totalmente dalla parte dei nativi condannando le violenze e le barbarie commesse dai bianchi usurpatori che li hanno privati delle terre, della vita e della libertà, cancellandoli per sempre dalla storia e relegando i superstiti allo sterminio in un misero ruolo marginale. L’intento, effettivamente nobile ancorché giusto, rischia però di scadere nel medesimo (ma contrario) manicheismo “a tesi” dei vecchi western mistificatori che celebravano l’eroismo dei nobili bianchi contro i feroci selvaggi indiani. Il film di Penn, sospeso tra iconoclastia dissacrante, avventura picaresca e romanzo tragicomico, procede come un treno nella notte con la sua disamina pro-nativi, attraverso la denuncia dei massacri e l’esplicitazione della loro antica cultura, spazzata via dalla furia imperialista dei bianchi. Un pizzico di sfumata ambiguità in più e qualche ulteriore tonalità di grigio avrebbero giovato alla resa complessiva. Ottenne comunque un buon successo di pubblico all’inizio dei trasgressivi e ribelli anni ’70, anticonformisti per vocazione, ma, rivisto oggi, le sue ingenuità sono impietosamente evidenti. Nel cast svetta Dustin Hoffman, all’apice del suo sfrenato trasformismo, accompagnato da Martin Balsam, Richard Mulligan, Chief Dan George, Jeff Corey e Faye Dunaway, che fa una piccola apparizione nel ruolo di una prostituta ed omaggia la celebre sequenza di seduzione de Il laureato (il sedotto è, ovviamente, sempre Dustin Hoffman!).

Voto:
voto: 3,5/5

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