lunedì 22 maggio 2017

Passione (En passion, 1969) di Ingmar Bergman

Diviso in quattro parti in ciascuna delle quali si analizza e si commenta un inferno privato. Andreas si è auto condannato alla solitudine per i tormenti di un doloroso passato, Anna ha perso la sua famiglia (marito e figlio) in un tragico incidente ed è corrosa dai sensi di colpa, e, infine, la coppia Elis e Vera, lui cinico e arido, lei triste e disperata. Alla fine l’egoista Elis è il solo a trovarsi a suo agio all’inferno. Sottile dramma psicologico di natura allegorica (l’inferno è un’evidente metafora dei diversi tipi di tormento interiore che annichiliscono l’animo umano, condannandolo alla perenne sofferenza psicofisica), che propone un’altra variazione sui grovigli psicologici e sui complicati legami tra quattro personaggi angosciati. Opera complessa, affascinante e altamente sperimentale, si avvale di una serie di trovate di alto magistero stilistico con cui il regista cerca di attuare una sorta di distanziazione metacinematografica (con relativo straniamento concettuale e sospensione simbolica), interrompendo spesso la rappresentazione per introdurre “intermezzi”, durante i quali gli attori commentano i loro personaggi nel film, con tanto di voce fuori campo a fare da collante. La fotografia di Sven Nykvist è splendida, il cast (che annovera Max von Sydow, Liv Ullmann, Bibi Andersson, Erland Josephson) è superlativo e le immagini fortemente orripilanti (in particolare quelle degli animali martoriati) incarnano con angosciante verismo il senso di sofferenza dei protagonisti. In questo tragico dramma da camera dall’estetica allucinata, Bergman mette in scena l’umanità in disfacimento, i demoni interiori, il degrado morale ed il senso di vertigine in cui si riflette la disperata solitudine dei protagonisti, il cui smascheramento brechtiano è solo la porta per introdurre lo spettatore nel medesimo dramma. Perché il centro di ogni discorso bergmaniano è sempre l’Uomo, con i suoi limiti, le sue angoscie, le sue miserie e le sue solitudini. L’Uomo che travalica le maschere sceniche e le finzioni drammaturgiche, e la cui condizione va letta come vicenda universale, archetipo, assoluta. Perché il cinema di Bergman, che piaccia o meno, tende sempre all’astrazione concettuale, all’allegoria incondizionata, all’apologo antropologico. E questo film, duro e puro, non fa eccezione.

Voto:
voto: 4/5

Nessun commento:

Posta un commento