mercoledì 10 dicembre 2014

Mystic River (Mystic River, 2003) di Clint Eastwood

Sean, Jimmy e Dave sono tre amici d'infanzia cresciuti in strada, a Boston, negli anni '70. Un terribile episodio, la violenza sessuale subita dal debole Dave per mano di due pedofili che lo rapiscono e lo tengono segregato per giorni, segnerà le loro vite per sempre, in modi diversi. Una volta adulti si son persi di vista: Jimmy è un ex bullo con amicizie di malaffare che ha messo la testa a posto e gestisce un esercizio commerciale , Sean è un poliziotto con problemi sentimentali e Dave, per quanto sposato e con prole, non ha ancora superato i traumi infantili. Ma quando la giovane figlia di  Jimmy, Katie, viene barbaramente uccisa da uno sconosciuto i tre amici si ritroveranno insieme, ma l'indagine alla ricerca del killer farà cadere i sospetti proprio su Dave. Formidabile noir psicologico targato Eastwood che ci immerge fin dall'inizio in atmosfere malsane, con un senso di angoscia crescente e di minaccia incombente sempre dietro l'angolo. Il grande regista californiano conferma tutto il suo talento autoriale con una regia asciutta e rigorosa, di classica misura, che rinuncia ad ogni spettacolarità gratuita e ad ogni colpo di scena stereotipato in funzione di una narrazione asettica ma avvolgente, densa di lati oscuri e di zone tenebrose, che inducono un'alienante fascinazione e relativa vertigine morale. In un gioco crudele di "homo homini lupus", in cui nessuno appare del tutto colpevole e del tutto innocente, il punto di forza è nel rapporto antico tra i tre amici, interpretati da tre attori in stato di grazia: Sean Penn, Tim Robbins e Kevin Bacon (i primi due sono stati premiati con l'Oscar per questa performance). Il tocco lieve ed elegante di Eastwood dona al film una potenza espressiva, una complessità tematica ed una profondità psicologica che hanno pochi riscontri nel cinema americano di oggi. Ed è straordinario il finale, amaro, politicamente scorretto ma inevitabile, che eleva definitivamente il regista nel gotha dei cineasti contemporanei per la capacità di bilanciare, senza fronzoli, un'alta densità narrativa con uno stile incisivo che lavora per sottrazione, dando spazio agli attori. Lo spaccato di umanità mostrato nel film, debole, corrotto, alla deriva, stupisce per il sincero realismo che non si risolve nella classica catarsi liberatoria ma, piuttosto, nella dolente presa di coscienza della mancanza di senso, in un mondo in cui la debolezza è un peccato originale che provoca ferite laceranti, impossibili da rimarginare. Onore a Eastwood e al suo cinema, denso e profondo, che parla dell'oggi con linguaggio antico e che rappresenta un modello da imitare, la grande "lezione" del cinema classico che mette al centro i tre elementi base: sceneggiatura, regia, recitazione. Quelli su cui il cinema di qualità deve sempre poggiare, il resto è opzionale. Candidato a 6 Oscar "pesanti", ne vinse solo due per gli attori ma ne avrebbe meritati di più.

Voto:
voto: 4,5/5

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