lunedì 1 dicembre 2014

Opera (Opera, 1987) di Dario Argento

Alla prima del Macbeth, che nell'ambiente dell'opera lirica ha la sinistra nomea di portare sfortuna, una giovane soprano, Betty, viene chiamata a sostituire la protagonista, vittima di un incidente stradale. Il successo è grande ma il clamore mediatico attira le attenzioni di un folle assassino, che inizia a perseguitare la ragazza, commettendo atroci delitti a cui lei, legata e con degli spilli fissati sulle palpebre inferiori, è costretta ad assistere senza poter mai chiudere gli occhi. Mistery crudele dai tratti onirici interamente costruito sull'occhio: la potenza dello sguardo, la morbosità dell'esibizione, lo spiare furtivo, l'immagine scioccante. Rappresenta l'apice del voyeurismo di Argento, voyeurista forsennato che qui celebra la sua personale ossessione attraverso un rituale tanto feroce quanto geniale per le trovate stilistiche: così pregevoli, audaci e cariche di estro visionario da raggiungere un punto definitivo nella carriera dell'autore. Infatti, da questo film in poi, inizierà, inesorabile, il declino che poi diverrà imbarazzante caduta verticale. Per quanto imperfetto, eccessivo e spesso inverosimile, non si possono negare i meriti tecnici e le notevoli magie visive di questo giallo postumo, che rappresenta l'ultimo lavoro di Argento degno del suo passato ed il consolidamento definitivo della sua sperimentazione estetica sempre tesa verso l'esibizione. E di quest'inno autoreferenziale al suo voyeurismo, il regista romano ci rende "complici", inorriditi ed ammirati al tempo stesso, grazie alle spericolate mirabilie tecniche che hanno pochi analoghi nel nostro cinema: basti solo citare il volo dei corvi nel teatro con il punto di vista del volatile in cerca dell'assassino tra il pubblico o la sequenza del proiettile sparato dallo spioncino o ancora la prospettiva "sanguinante" di Betty attraverso i diabolici spilli. Qui Dario Argento, manierista sregolato e dissennato, tocca il vertice del suo estro stilistico, con la continua ricerca del movimento di macchina ardito, dell'inquadratura spiazzante, del riflesso esclusivo o del dettaglio che deforma la percezione per tendere all'astrazione allucinata. I suoi detrattori lo hanno sempre accusato, e in questo film in modo particolare, di essere più stile che sostanza; l'affermazione ha di certo un suo fondamento ma il talento di Argento è indiscutibile e in questo suo personale "canto del cigno" lo dispensa a iosa, fino a rischiare la bulimia formale. E oggi, purtroppo, lo rimpiangiamo amaramente, sperando invano che l'ex "maestro del brivido" possa tornare su questi livelli in cui ha portato il nostro cinema di genere all'attenzione mondiale.

Voto:
voto: 3,5/5

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