venerdì 26 marzo 2021

C'era una volta... a Hollywood (Once Upon a Time... in Hollywood, 2019) di Quentin Tarantino

A Los Angeles, nell'anno 1969, Rick Dalton, attore divenuto famoso grazie a film televisivi d'azione, attraversa una fase delicata della sua carriera, in costante declino, e, per poter continuare a lavorare, deve scegliere se accettare il trasferimento in Italia per recitare negli "spaghetti western". A sostenerlo c'è il suo fedele amico di sempre, Cliff Booth, che gli fa da controfigura, da factotum e guardaspalle. Intanto il giovane regista Roman Polanski e la sua bellissima moglie Sharon Tate, star emergenti e lanciatissime della "Nuova Hollywood", si trasferiscono nella villa accanto a quella di Dalton. Le loro vicende si intersecano e si sfiorano, fino alla fatidica notte del 9 agosto, la più calda dell'estate 1969. Il nono film di Quentin Tarantino è una favola nostalgica sul cinema della sua infanzia e sul mestiere di fare il cinema. La scelta dei due personaggi protagonisti è emblematica, oltre che esplicativa, in tal senso. E' anche un malinconico racconto strutturato a bozzetti, un'ucronia sulla fine di un'epoca, che celebra i ricordi del regista sugli anni '60 ed i suoi miti giovanili. E lui inevitabilmente non può che scegliere un anno fatidico: il 1969, che segnò un passaggio epocale, storico, cinematografico, culturale, sociale e di costume. Secondo lo stile dell'autore (nonostante alcuni personaggi e situazioni siano reali) quasi nulla è realistico. Tarantino (un po' come faceva anche Fellini in modo diverso) non è per niente interessato alla storia, alla cronaca o all'attendibilità dei fatti. Tarantino è interessato al Cinema. E quindi tutto ruota intorno a questo, tutto viene filtrato attraverso l'occhio della macchina da presa, in questo caso interiore, uno sguardo artistico, personale, fatto di emozioni, citazioni, iperboli e sogni che il regista usa per raccontare una storia. La sua storia. E il potere immaginifico del cinema la sublima, la cambia, la trasla ora nel fumetto, ora nell'astrazione manierista, ora nell'enfatizzazione di vecchi miti su celluloide. Ma il territorio è sempre quello della "fiaba" pop, intessuta dei ricordi personali del regista, e filtrati attraverso la lente del cinema. In questo mondo parallelo tutto diventa possibile, le regole possono stravolgersi e l'arte può attuare la sua personale "vendetta" sulla storia. E' un Tarantino diverso ma non un Tarantino minore: più maturo, più rilassato, più pacificato, più tendente alla riflessione malinconica, all'elegia nostalgica che alla sua tipica energia briosa in bilico tra grottesco e pulp. Chi si aspettava un thriller violento sull'eccidio di Cielo Drive o un film alla Pulp Fiction non può che rimanere deluso, ovviamente. E' anche un film di fantasmi, di commiati e di metafore. Carico di citazioni, di riferimenti, di sogni, di miti e di ricercati simbolismi. E' evidente che la villa dei Polanski ed il suo fatidico cancello rappresentino la linea di demarcazione (e di passaggio) tra la nuova e la vecchia Hollywood, a cui ovviamente appartengono Dalton e il suo sodale. Come d'abitudine per il regista ci troviamo di fronte ad un prodotto tecnicamente impeccabile di sontuosa confezione estetica, ben scritto, ben recitato, e con le solite accattivante scelte musicali, un ulteriore omaggio agli indimenticabili anni '60. Nel cast stellare, che annovera nomi come Brad Pitt, Margot Robbie, Emile Hirsch, Timothy Olyphant, Dakota Fanning, Bruce Dern, Kurt Russell e Al Pacino, il più bravo è il protagonista Leonardo DiCaprio. Premiato con due Oscar: miglior attore non protagonista a Brad Pitt e migliore scenografia. La Sharon Tate di Margot Robbie è una sorta di fata leggiadra, una musa che risplende e quasi "galleggia", lievemente, oltre la storia. Due scene memorabili: la sequenza di Brad Pitt allo Spahn Ranch, sospesa tra thriller e western, e quella tra DiCaprio e la bambina del film nel film.
 
Voto:
voto: 4/5

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