Il mite Marcello è un omino dall'animo sensibile amante dei cani, che accudisce premurosamente nel suo piccolo negozio di toelettatura, e di sua figlia Alida, con cui deve accontentarsi di un rapporto part-time a causa della separazione dalla moglie. Circondato dal degrado del ghetto periferico in cui vive, è costretto a tollerare e scendere a compromessi con persone violente e attività criminose, in nome del quieto vivere a cui aspira. Tra questi c'è Simone, il bullo locale, fisico da pugile e modi brutali, che lo costringe a sopportare continue vessazioni appellandosi ad un'antica "amicizia" in cui lui è il carnefice e Marcello la vittima. Ma una serie di tragici eventi faranno cambiare le cose. Capolavoro di Garrone e miglior film italiano dell'anno 2018, incredibilmente snobbato agli Oscar ma premiato al Festival di Cannes con il Prix d'interprétation masculine per uno straordinario e commovente Marcello Fonte, e omaggiato in sala da 10 minuti di applausi spontanei a fine proiezione. Liberamente ispirato ad uno dei più agghiaccianti eventi della cronaca nera italiana (il "delitto del Canaro della Magliana", avvenuto negli anni '80 e salito alla ribalta nazionale per le sue efferate modalità), ne prende immediatamente le distanze, eliminando ogni sospetto di spettacolarizzazione morbosa e rinunciando ad ogni pretesa di cruda biografia neorealista, ma diventando qualcos'altro. Una magistrale lezione di cinema sobrio e metafisico, un apologo crepuscolare (e universale) sulla natura umana, intriso di realismo magico, violenza simbolica, toccante poesia, senso profondo. Si va oltre la critica sociale, l'analisi antropologica o la descrizione di un microcosmo criminale di ordinario squallore, realizzando un magnifico racconto per immagini che eleva una storia, semplice e tragica, ambientata in un non-luogo grigio, sporco e piovoso, verso una dimensione mitica (Davide contro Golia), facendone una metafora di riscatto, oltre che una superba riflessione su temi quali la dignità umana e la spaventosa complessità del nostro animo, in cui concetti assoluti come bene e male sono assolutamente fluidi, relativi, intercambiabili, inestricabili. Una "favola" nera ed etologica (in accordo alla poetica dell'autore) che vira costantemente verso elementi fantastici, allegorie archetipe, elementi onirici, gesti rituali. Basti pensare al meraviglioso finale ambiguamente "sospeso" che ci trasmette tutta la potenza e l'angoscia del film e rimane indelebilmente impresso nella memoria. E, ancora una volta, Garrone torna a girare in una dei "suoi" luoghi (il Villaggio Coppola di Castel Volturno), tratteggiandolo come un "inferno" spettrale e desolato, di sinistra fascinazione, simbolo pregnante dei mali e delle contraddizioni sociali di un paese. O, probabilmente, di tutti i paesi. Tra Dogville, Antonioni e Dostoevskij, Garrone ci mette davanti allo specchio (oscuro) della miseria umana, ma anche della sua forza ancestrale che ambisce al decoro, al riscatto, al riconoscimento. Elementi contrastanti che convivono in un rapporto simbiotico, proprio come quello tra Marcello e Simone. La forza del cinema dell'autore è, come sempre, tutta impressa nelle immagini, nelle ambientazioni, nelle atmosfere, nei volti. E quello scavato e sofferente di Marcello Fonte ne costituisce una nuova e definitiva icona da consegnare alla storia.
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