martedì 8 marzo 2022

Drive My Car (Doraibu mai kâ, 2021) di Ryûsuke Hamaguchi

Yûsuke Kafuku è un famoso attore e regista teatrale giapponese, la cui vita è stata segnata da dolorosi traumi che gli hanno lasciato ferite profonde nell'animo. L'ultimo è la morte improvvisa della sua amata moglie, che gli faceva anche da sceneggiatrice, con cui condivideva un forte sentimento, una grande intesa sessuale e l'attitudine di inventare "storie", mescolando l'arte e la vita. Due anni dopo il lutto l'uomo accetta un incarico a Hiroshima, dove dovrà dirigere un adattamento dello "Zio Vanja" di Cechov, facendo coesistere una pletora di attori che parlano lingue diverse e che non si capiscono tra loro. Durante i suoi spostamenti gli viene assegnata una giovane autista, Misaki, ragazza riservata ma con un tumultuoso mondo interiore, con cui Kafuku, dopo una certa riluttanza iniziale, riesce ad instaurare un sincero rapporto umano che gli apre nuove prospettive di sguardo. Tra le estenuanti prove in teatro e i viaggi all'interno della Saab 900 rossa, Kafuku rielabora il suo passato, i suoi lutti, le sue ossessioni e si pone alla ricerca di un altro sè. Questo struggente dramma esistenziale di Ryûsuke Hamaguchi, scritto dal regista insieme a Takamasa Oe, e tratto dal racconto breve omonimo di Haruki Murakami (contenuto nella raccolta "Uomini senza donne"), è, probabilmente, il film orientale più importante dell'anno 2021. Unanimemente lodato dalla critica internazionale e già premiato in sedi eccellenti (Prix du scénario al Festival di Cannes, Golden Globe al miglior film straniero e quattro candidature pesanti agli Oscar 2022, tra cui miglior film, regia e sceneggiatura), è un sommesso viaggio spirituale che ha il suo centro emotivo nell'incontro tra due solitudini, raccontato magnificamente con i tempi (lenti) ed i modi (profondi) tipici del cinema nipponico. E' anche un film impegnativo, molto parlato ma anche molto sottinteso, fatto di dialoghi, di silenzi, di sguardi e di momenti intimi che si fanno poesia, a cominciare dal lungo prologo introduttivo che ci immerge nel mondo matrimoniale di Kafuku con elegante sensualità, purezza espressiva e forza evocativa. Miscelando abilmente memorie, sentimenti, vita e teatro, il film sovrappone ed interseca il piano artistico con quello esistenziale, il processo creativo con quello emozionale, le parole "sacre" di Cechov con i pensieri del protagonista, utilizzando uno stile asciutto che opera per sottrazione, che lavora per ricchezza di sfumature e che ci accompagna per mano verso la magnifica catarsi finale. La difficoltà di comunicazione (rappresentata metaforicamente dagli attori che parlano idiomi differenti) è un problema atavico che affligge l'uomo e ne mina tutte le manifestazioni, nella realtà come nell'arte, ma che può essere almeno parzialmente superata solo con un mutuo atto di apertura, di reciproco avvicinamento e di conseguente "messa a nudo". Assolutamente straordinaria, in tal senso, la sequenza del monologo teatrale che viene "recitato" con il linguaggio del corpo attraverso la lingua dei segni, un momento di grande cinema che sa regalare emozioni raffinate, per spettatori dal palato fine. E' anche un film di luoghi, in cui gli spazi fisici, tutti limitati e finemente esplorati (la casa-talamo, gli interni dell'auto e il palcoscenico), diventano un'estensione spirituale di emotività, passioni, frustrazioni, impedimenti, sensi di colpa e pulsioni, in un tormentato percorso intimo che deve necessariamente passare attraverso la distruzione, prima di poter ambire alla risalita. Le parole, intese come concetto astratto, non necessariamente parlate ma come pura forma di un'idea, di una fantasia o di un moto artistico, sono il vero filo conduttore dell'opera, a cominciare dalla magnetica lunga parte iniziale (i titoli di testa appaiono dopo circa 40 minuti!) in cui le "storie" inventate da Oto, moglie di Kafuku, assumono una valenza erotica, immaginifica, vitale, come una sorta di rifugio dell'anima. Nel nostro paese ha avuto una distribuzione limitata passando praticamente in sordina, ma ha fatto maggiormente parlare di sè dopo l'ingresso di È stata la mano di Dio (2021) di Paolo Sorrentino nella prestigiosa cinquina finale che si contenderà l'Oscar 2022 al miglior film straniero. Indicato da tutti gli addetti ai lavori (e dallo stesso Sorrentino, forse non senza napoletana scaramanzia) come il "rivale" più pericoloso e il più probabile vincitore dell'ambita statuetta, Drive My Car appartiene, effettivamente, ad una categoria di cinema più alto, più elegante, più sottile e più suggestivo. Aspettando il responso definitivo dell'Academy, che arriverà nella notte italiana del 28 marzo, e pur facendo ovviamente il tifo per il nostro bravo regista, non si può non riconoscere la superiorità artistica del film di Hamaguchi.

Voto:
voto: 4,5/5

Nessun commento:

Posta un commento