venerdì 16 gennaio 2015

American Psycho (American Psycho, 2000) di Mary Harron

Patrick Bateman è l’immagine del successo: broker di Wall Street, abiti firmati, cura maniacale del proprio aspetto, appartamento lussuoso a Manhattan, vita mondana nei locali più esclusivi, accessori di lusso, look impeccabile, belle donne. Ma ha un lato oscuro di cui nessuno sospetta l’esistenza: la notte diventa uno spietato serial killer che frequenta i bassifondi, fa uso smodato di droga e pornografia, sgozza barboni nei vicoli, tortura ed uccide nei modi più brutali giovani prostitute dopo aver fatto sesso con loro. Non esiste alcun movente per i suoi crimini, ma solo il puro diletto nel commetterli: il piacere dell’eccesso, il culto dell’edonismo e del possesso. A ciò si aggiunge il morboso narcisismo di ottenere il medesimo successo personale in entrambe le due “attività”: quella pubblica, di giorno, e quella psicopatica, di notte. Ma, un giorno, Bateman incontra Paul Allen, una sorta di “sosia”, che fa il suo stesso lavoro, si veste come lui e cerca di replicarne aspetto e abitudini. La sua mente disturbata sarà messa in crisi e gli eventi prenderanno una piega che sfugge al suo ossessivo controllo. Dall’esplosivo materiale dell’omonimo romanzo “maledetto” di Bret Easton Ellis, divenuto famoso per le inenarrabili scene di violenza e crudeltà in esso contenute, la canadese Mary Harron ha tratto un adattamento algido, patinato ma denso di personalità: un thriller oscuro che sceglie, saggiamente, di mantenere fuori fuoco le atrocità sanguinarie del libro, puntando, piuttosto, sulle atmosfere, sullo scandaglio surreale della personalità disturbata, ma affascinante, del protagonista, egregiamente interpretato da Christian Bale. Intriso di sagace ironia nera, che dona al tutto un irriverente tono grottesco che smussa i contenuti splatter, il film preferisce suggerire, invece di mostrare, e rappresenta la mente disturbata del protagonista come un mondo onirico, stravagante, di sinistra malia, nel quale veniamo introdotti attraverso la sua verbosa derisione della “normalità”. Pur perdendo uno dei cardini del romanzo, il parallelismo malato tra la cura maniacale con cui Bateman “tratta”, indifferentemente allo stesso modo, la sua igiene personale o le sue vittime, non ne modifica il senso principale, ne mantiene il fascino oscuro e ne sublima la ferocia esplicita in una caustica critica allo yuppismo degli anni ’80, con tutto il suo corredo di rampantismo, materialismo ed egocentrismo smodato. Contiene almeno due momenti memorabili: la lunga filippica di Bateman sulla musica degli 80’s e la scena surreale, ma simbolicamente potente, dei biglietti da visita tutti uguali, metafora della perdita di identità degli yuppies, in nome di un modello stereotipato imposto dal conformismo di quel mondo vorace. Il finale, ambiguo ed aperto, che è un valore aggiunto, contiene il “messaggio” del film: l’egocentrismo smodato conduce al distacco dal reale, e si resta prigionieri in un labirinto di specchi senza più capacità di distinguere la realtà della fantasia. Con un ingegnoso espediente, in omaggio ai fans del romanzo, la regista ha deciso di citare le terribili scene di tortura presenti in esso nella telefonata in cui Bateman confessa le sue malefatte all’avvocato: tutte le cose che egli racconta, e che appaiono disegnate sul suo quaderno, non sono presenti nel film, ma sono prese, pari pari, dalla prosa di Ellis. In definitiva quest’opera, pur nei limiti di un prodotto “di genere”, si mantiene su un buon livello qualitativo, ben sopra la media dei suoi simili.

Voto:
voto: 3,5/5

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