venerdì 9 gennaio 2015

Il fascino discreto della borghesia (Le charme discret de la bourgeoisie, 1972) di Luis Buñuel

Sei personaggi, esponenti dell’alta borghesia, percorrono più volte una strada deserta, avvolta in un panorama desolato, nel tentativo di trovare un ristorante e consumare un pasto. Ma non ci riescono mai perché, ogni volta che ne trovano uno, qualcosa va storto all’ultimo momento. Essi sono: due coppie sposate, la sorella ubriacona di una delle donne e un diplomatico, ambasciatore a Parigi di un piccolo stato ispanico, che traffica droga. A costoro si aggiungono, a turno, altre figure pittoresche, quali un prete che uccide i moribondi, dopo avergli concesso regolare assoluzione, o un ottuso ufficiale dell’esercito che ha un antico crimine da confessare. Straripante satira nera, sotto forma di favola allegorica, di raffinata bellezza formale e di caustico spessore polemico, che utilizza tutte le “armi” tipiche del grande Maestro di Calanda per fare a pezzi, con beffarda lucidità, la classe borghese. Tra invenzioni mirabili, surrealismo tagliente, genio visionario e profondità di analisi, l’autore realizza un ritratto impietoso e spietato, in forma onirica, della borghesia europea, enfattizzandone i vizi e deformandone gli abusi sotto la lente sardonica del grottesco. Ed ecco quindi personaggi bizzarri, improbabili quanto emblematici (clero, politica, esercito, polizia), che ci appaiono come alieni, parassiti, inetti, paraventi di un mondo vacuo costruito sull’apparenza, sull’avere, sulla ripetizione infinita dei propri assurdi rituali, volti a soddisfare il proprio edonismo e a mantenere in vita questo status di privilegio il più a lungo possibile. Fuori dalla realtà, dai problemi della gente e da ogni contesto storico, queste figure amorfe si muovono, subdole e indolenti, senza mai riuscire a raggiungere il loro scopo, seppur semplice (la cena), per simboleggiare l’impotenza e l’inutilità di una classe tanto boriosa quanto inerte. La celebre ironia spiazzante di Buñuel diventa qui graffiante parodia, dal retrogusto amarissimo, con intento iconoclasta verso i fondamenti istituzionali del capitalismo, finendo per criticare, attraverso una gustosa messa alla berlina, non solo una classe ma anche tutti quei processi, sociali e storici, che portano alla formazione di esse, creando così delle barriere, invisibili ma insormontabili, tra gli esseri umani. E’ uno dei capolavori assoluti dell’autore iberico, per molti il migliore, di sicuro il più rappresentativo, per la perfetta sintesi tra il suo straripante estro immaginario e l’efficacia polemica della denuncia sociale, che lo eleva come un simbolo solenne della sua estetica. Attraverso il meccanismo opprimente della ripetizione, che sfianca ma ipnotizza lo spettatore, il regista ci immerge in questo mondo, assurdo e parallelo, di dialoghi inconsistenti, di estasi reciproca, di conformismo spudorato, di autocelebrazione delirante, di moralismo impenitente, il tutto condito con una rarefatta leggerezza dei toni che costituisce, indubbiamente, la virtù maggiore dell’opera. L’elemento surreale, che qui appare sempre in forma di imprevisto, non stravolge nè perturba l’apparente immobilità dei protagonisti, non ne cambia le abitudini, ma, semplicemente, le rimanda, in un’ironica e sempiterna reiterazione dell’effimero rituale. Da questa insensata spirale tragicomica riluce tutto il vuoto di una classe priva della percezione di sé, in distonia con il mondo, invischiata intorno al proprio ego, senza meta (la strada desolata di campagna) e senza scopo. Questo sprezzante apologo antiborghese, che ne deride goliardicamente uno dei cardini sacrali, la riunione a tavola, luogo archetipo di convenevoli, ipocrisia e sfoggio, utilizza il sogno (quello, a turno, dei protagonisti) per mostrarcene il vero volto, nell’unico “luogo” in cui ogni maschera sociale cade inesorabilmente. E se ne L’angelo sterminatore  l’incompiutezza, ovvero il non riuscire mai a raggiungere l’intento desiderato, portava ad una caduta nei propri bassi istinti, qui, invece, produce un ulteriore accrescimento di atteggiamento parassitario, come se il reiterarsi della posizione sociale borghese derivasse dalla mancanza d’azione più che dall’azione. Tutto questo per sottolinearci, secondo la visione dell’autore, l’inerzia della classe presa a bersaglio, per la quale il “fascino” del titolo è, ovviamente, solo la burla suprema del grande vecchio di Calanda. Nella scena degli scarafaggi che escono dal pianoforte, il regista cita se stesso ed il suo celebre manifesto del surrealismo cinematografico, Un chien andalou. Fu premiato con l’Oscar al miglior film straniero, ma Buñuel, come prevedibile, non presenziò alla cerimonia e non ritirò il premio.

Voto:
voto: 5/5

Nessun commento:

Posta un commento