mercoledì 28 gennaio 2015

I racconti della luna pallida d'agosto (Ugetsu monogatari, 1953) di Kenji Mizoguchi

Nel Giappone medioevale, sconvolto dalle sanguinose guerre feudali, il contadino Tobei ed il vasaio Genjurô lasciano le loro famiglie per andare incontro alla gloria in armi. Il primo viene sedotto da una diabolica principessa, mentre il secondo sogna di diventare un samurai. Sopravvissuti agli orrori della guerra, torneranno a casa, ma avranno una cocente delusione: la moglie di Genjurô è morta nell’attesa del suo ritorno e gli appare in forma di fantasma, mentre quella di Tobei è diventata una prostituta. Alla fine le illusioni di eroismo, definitivamente cadute, lasceranno il posto ad un mesto disincanto. Questo capolavoro assoluto del Maestro Mizoguchi, ispirato ai racconti “L'albergo di Asaji” e “La lubricità del serpente” di Ueda Akinari, ma anche alla novella “La casa nel canneto”, è una straordinaria commistione tra la favola surreale, il romanzo in costume, il melodramma onirico e la tragedia storica. Opera solenne, profonda, astratta, è la summa complessiva del cinema di Mizoguchi, perché contiene tutti i temi cardine della sua estetica: l’arte, la vita, la bellezza, l’apparenza, la falsità e la verità. Leggibile a vari livelli, come tutti i capolavori, e strutturato in tre parti narrative (partenza baldanzosa, esperienze illusorie, dolente ritorno), è, innanzi tutto, una struggente elegia sulla condizione femminile. La donna, figura ricorrente e pregnante nelle opere di Mizoguchi, è qui vista come ricettacolo di valori positivi, simbolo di grazia e di saggezza, persino quando ha le sembianze della misteriosa maliarda. Essa è l’unica a possedere una coerenza morale ed una coscienza sentimentale costruttiva, perché orientata verso intenti basilari chiari e non tortuosi o megalomani, come quelli tipicamente maschili. Un altro aspetto fondamentale dell’opera è la sua riflessione sull’arte, sul suo rapporto con la bellezza e sul ruolo dell’artista nella società. L’artigiano Genjurô, dopo l’incontro fatale con la bella incantatrice Wakasa, di cui subisce la malia, si trasforma da artigiano in artista, ma rinchiuso in una immobile astrazione, succube di un modello teorico di bellezza e senza capacità di applicazione nel mondo reale. Solo nel finale, dopo le dolorose esperienze vissute e dopo aver spezzato l’influsso di Wakasa, saprà arrivare ad un’arte finita, concreta, lirica, espressione del proprio sentire e memoria del proprio vissuto. Tutta la parte, visivamente imponente e raffinata, della “prigione” ideologica di Wakasa è ispirata al teatro fantastico giapponese, le cui figure sono archetipi surreali, simboli allegorici, proiezioni inconscie. Nel finale, nonostante il tragico destino, saranno proprie le due donne abbandonate, le mogli, ad uscire “vittoriose”, contrapponendo la loro umiltà all’alterigia maschile, e sancendo l’impossibilità di raggiungere la felicità attraverso irreali sogni di vana grandezza, che non siano, piuttosto, fondati sul pragmatico realismo, sulle piccole azioni quotidiane, sui valori sentimentali e sugli affetti familiari. Da questo contrasto tra ambizioni sbagliate e lucido senso pratico, che nell’autore appare sempre come scontro tra apparenza e verità, deriva l’umana infelicità, perché il superamento dei propri limiti non inficia solo la dignità personale ma l’intero ambiente sociale circostante: l’errore di vanità, commesso da Tobei e Genjurô, provocherà il crollo di un intero mondo familiare. E qui si innesca la critica storica del regista alle guerre feudali ed a quel modello sociale che le provocò, distruggendo un paese, dal suo interno, con lotte intestine. La parabola esistenziale dei due protagonisti maschili è, in tal senso, emblematica: un viaggio di formazione per cercare, altrove, quello che avevano già, per poi capirlo solo dopo averlo irrimediabilmente perduto. Una sconfitta amara ma formativa, quella di un paese che ha bisogno di trovare nell’unità, piuttosto che nell’egoistica divisione, il proprio senso di dignità nazionale. Questo film ammaliante, straripante di suggestioni oniriche, chiavi di lettura, implicazioni psicologiche, rimandi storici, riflessioni esistenziali, connotazioni morali, è uno dei massimi capolavori del cinema asiatico, la cui portata filosofica “cosmica” procede, di pari passo, con il suo splendore formale. Tra le tante sequenze memorabili di quest’opera omnia ricordiamo: il viaggio in barca sul lago, il villaggio assediato, la casa da tè, l’agonia di Miyagi (moglie di Genjurô) e tutta la parte ambientata nel palazzo della maliarda, con riferimento particolare alla scena del pic-nic. Venne premiato con il Leone d'argento al Festival del Cinema di Venezia del 1953.

Voto:
voto: 5+/5

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