giovedì 29 gennaio 2015

Una moglie (A Woman Under the Influence, 1974) di John Cassavetes

Nick Longhetti, italoamericano, lavora come capocantiere ed è sposato con Mabel, casalinga, con cui ha tre figli. I suoi stressanti ritmi lavorativi lo tengono spesso lontano da casa ma, anche quando è presente, appare nervoso e intrattabile. Mabel, psicologicamente fragile, finisce in clinica per esaurimento nervoso. Ne esce dopo sei mesi ma, una volta fuori, le dinamiche scatenanti si ripetono e lei non trova più la forza e il coraggio per affrontare la vita quotidiana. Intenso dramma familiare che mostra, con il realismo scarno tipico dell’autore, le lacerazioni di una coppia dall’interno. Consumati dalla routine, Nick e Mabel si scontrano fino alla sfinimento in un quotidiano gioco al massacro: stressato lui, depressa lei. Bravissimi gli attori protagonisti, Peter Falk e Gena Rowlands, moglie del regista e candidata all’Oscar per questo ruolo di struggente carica drammatica. Gli estenuanti dialoghi della coppia, spesso improvvisati, sono di ammirevole forza realistica. Cassavetes porta in scena la vita vera, con un’ottica femminista nella sua accezione più nobile e rigorosa, senza mai indulgere in scene madri o derive patetiche, ma con una puntigliosa sensibilità del tocco. E’, in assoluto, uno dei migliori esempi cinematografici sul tema delle nevrosi matrimoniali, al punto che alcuni hanno scomodato paragoni eccellenti con il cinema di Bergman. E’ anche una storia d’amore ardente e disperata, che viaggia in bilico sull’orlo della follia, ma non per questo meno appassionante, specialmente nella capacità, tipica del regista, di garantire un rigoroso livello di profondità interiore, uno scandaglio affilato della psicologia dei personaggi, un trionfo di realistica umanità. Tutte le emozioni principali sono costruite sul magnifico volto espressivo della Rowlands, dal suo sguardo riusciamo a leggere amore, odio, disperazione, sconforto, speranza. Anche stavolta troviamo la conferma di un’altra caratteristica del cinema di Cassavetes: la magistrale capacità nella direzione degli attori, concedendo anche il giusto spazio d’improvvisazione, e garantendo sempre l’assoluta adesione al personaggio. Quest’opera costituisce l’ideale punto di arrivo, anche in termini di amarezza, della tetralogia dell’autore sull’alienazione della middle class americana, dopo Volti (1968), Mariti (1970) e Minnie e Moskowitz (1972). E’ anche uno dei suoi lavori più maturi ed equilibrati, in cui la capacità di celare l’arte tra le pieghe delle inquadrature diventa solenne elegia antropocentrica, sincera, lucida, delicata, il cui fine è sempre quello di rappresentare la vita, la grande avventura dello spirito umano. Da non perdere e da vedere in lingua originale.

Voto:
voto: 4,5/5

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