venerdì 16 gennaio 2015

Salvatore Giuliano (Salvatore Giuliano, 1962) di Francesco Rosi

Biografia anomala del  “leggendario” bandito Salvatore Giuliano, giovane siciliano di Montelepre, ladro di ricchi, ribelle separatista, “eroe” popolare e strumento manipolato dalla mafia. La sua morte misteriosa, ancora densa di punti oscuri, fu, per molti, un primo esempio di “accordo” tra stato e “cosa nostra”. Capolavoro assoluto di Rosi, maestro del cinema “impegnato” a sfondo sociale e politico, che tra cronaca, storia e dramma ci restituisce una superba ricostruzione, di magistrale splendore formale e di alta densità tematica, della Sicilia e dell’Italia degli anni ’40. Forte di una sceneggiatura granitica, di una sontuosa fotografia in bianco e nero e di una struttura a flashback che dona un ritmo serrato al continuo gioco di salti temporali, ha la forza epica della grande tragedia storica, il realismo potente del documentario, la lucidità rigorosa dell’inchiesta, l’audacia corrosiva del libello politico e la coerenza critica dell’analisi sociale. Profondo e solenne nell’indagine di uno dei più subdoli misteri italiani, trova la massima genialità espressiva nella scelta di lasciare fuori fuoco Giuliano, inquadrato sempre di spalle o da lontano, per simboleggiare che il vero protagonista dell’opera non è il bandito, ma il contesto sociale: quell’intricato sottobosco di poteri, interessi e connivenze tra politica e mafia nella Sicilia del dopoguerra. Con la classe del narratore di razza ed il puntiglio del giornalista mordace, Rosi mette a nudo, impietosamente, i mali e le cancrene di un’isola e di una nazione, dando vita al più grande film italiano di mafia mai realizzato. Paradigmatico e lungimirante nella sua analisi degli intrecci loschi tra istituzioni e malavita, abbandona, definitivamente, quell’ingenua impronta di colore locale con cui era stata, fino ad allora, ritratta la mafia dal nostro cinema, aggiungendovi un tono di sinistra valenza ed inquietante attualità, che la raffigura come fenomeno brutale, nazionale e colluso con frange corrotte dei poteri forti.  La scelta di frammentare la linearità del racconto con i salti temporali, perfetta dal punto di vista drammaturgico, non fa mai perdere i pur complessi legami causa-effetto tra gli avvenimenti, a testimonianza di un lavoro registico magistrale. E l’idea, rivoluzionaria, di scardinare il più classico degli espedienti narrativi, ovvero l’identificazione del pubblico con il protagonista, che qui è sempre lasciato sullo sfondo, serve a portare alla ribalta la storia, chiedendo allo spettatore non solo un coinvolgimento emotivo, ma uno sforzo critico, analitico ed interpretativo dei fatti mostrati. Beffardamente Rosi regala il maggior numero di inquadrature a Giuliano solo quando ce ne mostra il cadavere, simbolo ingombrante ed emblematico di intrighi nascosti, di corruzione politica e di quei tanti misteri italiani che ancora cercano la verità. Autentico corpo di un reato commesso da quelle forze manipolatrici che sono la radice di un male antico, che parte dai palazzi romani per arrivare alle polverose strade dell’aspra campagna siciliana. Evitando brillantemente, da un lato, le trappole dell’agiografia criminale e, dall’altro, quelle del qualunquismo populista, l’autore disegna uno scenario inquietante quanto rigoroso, in cui non c’è bisogno di far nomi o mostrar volti per donare credibilità alla veemente denuncia: il colpevole viene, argutamente, individuato in quella perversa dinamica di interessi politico-economici che diventa metodo, regola, sistema. Numerosi i momenti di volo alto di questo capolavoro assoluto, impaginati con stili fotografici diversi per aumentarne il risalto simbolico: dalla strage di Portella della Ginestra, di memorabile epica tragica, al punto che molti hanno scomodato Ejzenštejn, alla madre di Giuliano che piange sul corpo del figlio, pagina di incredibile forza poetica che rimanda alle raffigurazioni cristologiche del Mantegna. E merita una citazione anche la sequenza del tribunale, profondamente neorealista, intrisa di vena polemica e caustico sarcasmo, che la rendono un monumento all’indignazione popolare e alla denuncia civile. Il grande bluff della morte del bandito Giuliano, omicidio politico mascherato da regolamento di conti mafioso, trova pieno compimento nell’amaro finale, in cui il regista sceglie di “slegare” gli eventi, mostrandoceli con il piglio duro e sfrontato della cronaca “d’assalto”. Nonostante il patetico tentativo di veto censorio, il divieto ai minori di 16 anni, indotto dalla classe politica nazionale, fortemente indignata, il film fu un grande successo di pubblico e critica, e fu premiato con l’Orso d’Argento alla regia al Festival del Cinema di Berlino del 1962. Con La battaglia di Algeri di Pontecorvo è, probabilmente, l’esempio artisticamente più alto di fusione tra cinema e documentario, in cui storia e dramma convergono in un mèlange di solenne forza tragica.

Voto:
voto: 5/5

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