mercoledì 21 gennaio 2015

Birdman o (L'imprevedibile virtù dell'ignoranza) (Birdman or (The Unexpected Virtue of Ignorance), 2014) di Alejandro González Iñárritu

Riggan Thomson è una ex star del cinema alla soglia dei 60 anni che, dopo aver raggiunto il successo mondiale e l’apice della notorietà negli anni ’90, nel ruolo del supereroe alato Birdman, è caduto nel dimenticatoio. Per risalire la china e dimostrare il suo talento, innanzi tutto a se stesso, ha rinnegato il suo passato di pellicole commerciali, lanciandosi nell’ardua impresa di adattare, dirigere e interpretare un testo di Raymond Carver ("Di cosa parliamo quando parliamo d'amore"), da portare in scena in un famoso teatro di Broadway. Nel progetto sono coinvolti il suo storico produttore, Jake, sua figlia Sam, ex tossica, ed un cast eterogeneo tra cui spiccano l’istrione Mike Shiner, talentuoso ma indisciplinato, la tenera Lesley, che ha sempre cullato il sogno di calcare un palcoscenico di Broadway, e l’insicura Laura, amante di Riggan. Alle tante difficoltà oggettive connesse all’impresa, si aggiungono i problemi personali e psicologici di Riggan, tra cui l’ingombrante presenza del suo alter ego Birdman, amato e odiato, che gli appare e gli parla, sotto forma di “visioni”, cercando di minarne la tenacia, affinchè desista dal difficile compito intrapreso per “ritornare” da lui. Splendida commedia irriverente del messicano Iñárritu, che firma così il suo film migliore, più maturo e denso per tematiche trattate, riferimenti culturali, allegorie filosofiche ed un perfetto equilibrio formale tra il suo innato talento virtuosistico (anche stavolta la cifra stilistica dell’opera è l’iperbole) e l’esigenza di una messa in scena teatrale, e, quindi, classica. Brillante già nell’impostazione iniziale, che indulge nel metacinema, la scelta del protagonista, Michael Keaton (ex celebre Batman burtoniano), la cui parabola professionale ricalca perfettamente quella del suo personaggio, Riggan Thomson, questo film solido e agrodolce, con punte da black comedy, dialoghi pungenti, irresistibili situazioni sopra le righe e momenti visionari che sconfinano nel metafisico, si assesta saldamente come una delle migliori pellicole in assoluto dell’anno 2014. Se sono evidenti i riferimenti a Robert Altman (l’adattamento da Carver, da cui è tratto America Oggi,  la presa in giro surreale del mondo del cinema hollywoodiano, l’utilizzo espressivo dei piani sequenza), è con il capolavoro di Bob Fosse, All that jazz, che questa frizzante opera di Iñárritu ha i debiti maggiori. Il paragone tra i due protagonisti, Joe Gideon e Riggan Thomson, è perfettamente calzante: entrambi sono due artisti che cercano di riemergere, artisticamente ed umanamente, portando in scena uno spettacolo ambizioso, tra mille difficoltà, in lotta con se stessi e con gli altri in un momento delicato e decisivo della propria esistenza. Entrambi vivono l’esperienza a due livelli: la dimensione reale e quella onirica, la visione della “dama bianca”, che accompagna Gideon verso la morte, e quella di Birdman, simbolo fantastico del proprio passato, che lo ostacola nel proprio percorso evolutivo, reclamando il suo spazio esclusivo, come un’amante gelosa e possessiva, che mira ad impedire l’improbabile resurrezione artistica di Riggan. Anche la costante fusione tra i due mondi appena citati, al punto che diventa difficile distinguere la finzione dalla realtà, l’universo interiore da quello oggettivo, deve parecchio al film di Fosse; ma qui innesca ulteriori livelli di complessità narrativa, che rendono il linguaggio filmico tanto sperimentale quanto accattivante. Basti pensare all’assoluta convergenza tra la piéce teatrale diretta da Riggan e la sua vita reale, i suoi rimorsi sentimentali, il suo bisogno disperato di essere amato, accettato, gratificato semplicemente per ciò che è. Ma dove il film di Iñárritu diventa originale, e, addirittura, esplosivo, è nell’adattare l’eterna antitesi arte-vita alla sensibilità moderna, instillandovi pillole di tutte le psicosi contemporanee: l’ossessione per la celebrità, l’ego smisurato, le degeneri regole della popolarità “social”, imposte dai nuovi media hi-tech, per i quali virale è sinonimo di potere ed il valore si misura in base al numero di “like” ricevuti. Gustosissima la messa alla berlina dei cinecomic, i blockbuster sui supereroi stracolmi di effetti speciali, che avrebbero favorito l’imbarbarimento culturale delle nuove generazioni, con la sfacciata messa a fuoco dell’eterna contrapposizione tra cultura pop e cultura “alta” (letteratura, teatro, cinema d’essai), che qui assume la valenza di un grottesco conflitto interiore (Riggan versus Birdman). Emblematica la scena iniziale, che già contiene, abilmente celato, il senso intimo del film: il protagonista che medita, guardandosi allo specchio, con la significativa scritta in basso a destra (“A thing is a thing not what is said of that thing”) ed il poster di Birdman, alle sue spalle, che lo “osserva” torvo. Tra gli altri temi toccati, da questo ribollente tumulto vulcanico, citiamo la sferzante presa in giro dei critici d’arte (Riggan dice chiaramente che un critico è un artista fallito e privo di talento) e la rappresentazione dello spazio dell’azione, i camerini, i corridoi, la stessa New York, sotto forma di palcoscenico, in funzione del mondo interiore del protagonista, che cerca di “volare” per liberarsi di se stesso e raggiungere ciò che cerca: successo, riconoscimento, amore. Altri elementi notevoli di quest’opera scintillante e trionfalmente ridondante sono la stravagante colonna sonora jazz, gli impagabili momenti surreali (Riggan che corre in mutande attraverso Times Square) e le grandi interpretazioni del cast sontuoso, in cui svettano un superlativo Michael Keaton, che ci regala una performance memorabile e “da Oscar”, ed il sempre bravo Edward Norton, ancora una volta a suo agio in un ruolo estremo. Il tocco di genio definitivo è nello splendido epilogo ambiguo, metafisico ed allegorico, che lascia interdetti ed ammirati. A pensarci bene, non ci poteva essere finale diverso.

Voto:
voto: 4,5/5

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