venerdì 16 gennaio 2015

Teorema (Teorema, 1968) di Pier Paolo Pasolini

La vita di una famiglia dell’alta borghesia milanese, composta da Paolo, industriale, sua moglie Lucia, i figli studenti, Pietro e Odetta, e la domestica Emilia, viene sconvolta dall’arrivo in casa di un misterioso ospite: un giovane enigmatico di bell’aspetto, che parla pochissimo e trascorre il tempo leggendo Rimbaud. Tutti i cinque membri della famiglia risulteranno attratti dall’enigmatico ospite e tutti, a turno, avranno con lui rapporti sessuali, fino a che, un giorno, questi andrà via improvvisamente così come è arrivato. La famiglia non sarà più la stessa e, in breve, sarà disgregata, perché ciascuno dei suoi membri è stato radicalmente cambiato dall’esperienza vissuta: Odette diventa catatonica e sarà chiusa in un istituto di igiene mentale, Pietro lascia la casa per darsi alla pittura, ma resterà invischiato nella sua mancanza di talento, Lucia si abbandona ad un erotismo patologico, concedendosi a tutti, Paolo cede la sua fabbrica agli operai, si denuda degli abiti alla Stazione Centrale di Milano e finisce a vagare, nudo e disperato, in un arido deserto. La serva Emilia ritorna alla casa paterna, in un piccolo borgo rurale, dove viene accolta come una santa. Qui sceglie una vita semplice, cade in un’estasi ascetica e levita nell’aria, compiendo un miracolo. Capolavoro controverso di Pasolini, che, tra Marx e Freud, sacro e profano, misticismo e lussuria, rappresenta una delle sue opere più importanti, originali e geniali nell’utilizzo di un ideologismo dogmatico, il teorema del titolo, al servizio di una disamina arguta sulla natura umana e sulla sua incapacità di trovare Dio. Attaccato duramente dalla censura, con accuse di oscenità, e dalla Chiesa, per l’accostamento tra il sacro ed il sesso (anche omosessuale), venne sequestrato dalla Procura romana e ritirato dalle sale. Ma la vicenda giudiziaria, a cui il grande regista poeta non era di certo nuovo, si concluse con un nulla di fatto e con il pieno riconoscimento dello status artistico dell’opera, annullando il provvedimento restrittivo. Sotto la superficiale patina blasfema e libertina, si nasconde una delle opere più dense, stupefacenti, profonde e coraggiose del cinema italiano, in cui l’evidente provocazione vuol essere, come sempre in Pasolini, uno scossone morale per indurre una vigile riflessione sui reali temi dell’opera. Va anche ricordato che la predisposizione, quasi naturale, del regista allo “scandalo”, va letta sempre come forma catartica di ribellione, derivata dall’atavico conflitto interiore tra la sua elevata vocazione poetico spirituale ed i “tormenti” della carne, ovvero la sua omosessualità da tenere celata e da vivere come un “vizio” nascosto, per colpa del moralismo italiano. Tuttavia questa vena dissacratoria, per quanto sincera e connessa all’intima personalità dell’autore, non è mai volgare, mai strumentale, mai boriosa, ma, piuttosto, colta, lucida e finalizzata alla profondità dell’analisi. La spiegazione del “teorema” dimostrato in questa pellicola è alquanto ovvia, per l’osservatore non prevenuto: il film ha un’intensa valenza religiosa, sotto la coltre “oscena”, ed è una metafora scioccante dell’inadeguatezza dell’uomo (borghese) di riconoscere, accettare e vivere il Sacro. La sola che vi riesce è la serva Emilia, perché semplice, pura, appartenente a quei “bassi” ceti (contadini o sottoproletari), tanto cari all’autore e non condizionati dalle sovrastrutture ingombranti del conformismo della società consumistica. La famiglia milanese rappresenta la borghesia, ovvero quell’Italia abbiente, reazionaria, imbalsamata ed ideologicamente rigida, che ama crogiolarsi sulla vanitosa auto perpetuazione di sé stessa, celando la propria mancanza di senso e d’identità sotto una facciata di buone maniere e rituali mondani. Concetti già egregiamente trattati da Buñuel in quasi tutta la sua filmografia, e con la massima valenza polemica nel suo capolavoro: Il fascino discreto della borghesia. L’ospite è una chiara allegoria del divino che viene, inaspettatamente, tra noi, non a caso annunciato da un telegramma portato da un postino (Ninetto Davoli) dal nome emblematico di Angelo. L’ospite irrompe, all’improvviso, nella vuota ritualità di un microcosmo borghese, benestante quanto arido, e si dona a tutti indistintamente in maniera totale. Qui il sesso diventa metafora di offerta, condivisione, elargizione suprema, come solo il divino può fare. Eros e sacro in un’ardita, quanto ingegnosa, commistione emblematica. Tutti i componenti del nucleo familiare sono irrimediabilmente attratti dall’ospite misterioso, chi perché ne avverte l’aura luminosa, chi perché lo vede diverso, estraneo ed indifferente al proprio mondo di certezze prefabbricate e, quindi, ne risulta spiazzato. Ma il rapporto simbiotico che si instaura, l’ospite “possiede” sessualmente tutti ma si fa “possedere” a sua volta, determina un traumatico cambiamento in ciascuno dei membri della famiglia, perché ne svela la crisi profonda, la mancanza di senso, la debolezza dei propri dogmi, la perdita di identità civile e sociale. E, quando l’ospite andrà via per sempre, sarà il caos: la sua assenza sarà, per ciascuno, lo specchio impietoso della propria inadeguatezza, del proprio fallimento, la dolorosa presa di coscienza. Egli dirà ad Emilia, simbolo degli umili e dei semplici, prima di partire: “Tu sarai l’unica a sapere, quando sarò partito, che non tornerò mai più, e mi cercherai dove dovrai cercarmi”, e lei sarà la sola a pentirsi realmente, salvandosi dal disfacimento ed abbracciando il divino, in un percorso di mistica redenzione al di sopra delle debolezze umane. La sua ascesi viene contrapposta, beffardamente, da Pasolini all’opposto percorso, egoistico, tenuto dagli altri, prigionieri della propria individualità e incapaci di donarsi realmente agli altri. Per tutti loro ci sarà la sconfitta, l’umiliazione, la malattia, il deserto. La resa incondizionata di fronte alla propria incapacità di capire il divino, compenetrandosi con esso, è la solenne ed irrevocabile dimostrazione del teorema pasoliniano. L’autore ha spiegato benissimo tutto questo in un’intervista ad un giornale francese, dicendo: “Dio è lo scandalo. Il Cristo, se tornasse, sarebbe lo scandalo; lo è stato ai suoi tempi e lo sarebbe oggi. Il mio sconosciuto – interpretato da Terence Stamp, esplicitato dalla presenza della sua bellezza – non è Gesù inserito in un contesto attuale, non è neppure Eros identificato con Gesù; è il messaggero del Dio impietoso, di Jehovah che, attraverso un segno concreto, una presenza misteriosa, toglie i mortali dalla loro falsa sicurezza. È il Dio che distrugge la buona coscienza, acquisita a poco prezzo, al riparo della quale vivono o piuttosto vegetano i benpensanti, i borghesi, in una falsa idea di se stessi”. La famosa sequenza finale, Paolo che vaga nudo nel deserto e urla disperato, sulle note del Requiem di Mozart, è tra le più potenti del cinema di Pasolini: l’impotenza umana di fronte al divino, l’incapacità borghese di capire il sacro e qualunque cosa che sia altro da sé, con conseguente smarrimento ideologico. D’altra parte lo stesso Pasolini ha sempre affermato che l’unica possibilità di rivoluzione consiste proprio nel sovvertimento della logica che sorregge l’ideologia della società borghese o, come in questo caso, la totale assenza di essa. Nel grande cast ricordiamo Silvana Mangano (Lucia, la madre), Terence Stamp (l'ospite), Massimo Girotti (Paolo, il padre) e la “fedelissima” Laura Betti (Emilia, la domestica).

Voto:
voto: 5/5

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