domenica 25 gennaio 2015

Fino all'ultimo respiro (À bout de souffle, 1960) di Jean-Luc Godard

Michel Poiccard è un giovane ribelle senza regole e senza ideali, spudorato delinquente marsigliese che vive la sua vita “al massimo”, obbedendo solo ai suoi impulsi. Ruba un’auto, scappa dalla polizia, uccide uno sbirro e seduce Patricia, bella studentessa americana. Alla fine della tormentata relazione, tra sesso e incomprensioni, lei lo denuncia. Folgorante opera prima di Jean-Luc Godard, da un soggetto di Truffaut, che costituisce uno dei manifesti più degni, intensi, famosi e celebrati della Nouvelle Vague francese. Opera fondamentale nel rinnovamento del linguaggio cinematografico che avvenne negli anni ’60, grazie ad autori come Fellini, Antonioni, Resnais, Chabrol, ha la medesima sfacciataggine del suo ruvido protagonista nel fare a pezzi le regole canoniche della narrazione filmica, con stravolgimenti all’insegna di una frenetica libertà espressiva e di un’esuberanza stilistica improntata sul dinamismo. Ecco, quindi, i dialoghi improvvisati, l’ispirazione immediata che elude la “tirannia” della sceneggiatura, la direzione elastica degli attori, il montaggio “jump cut”, le riprese sghembe o retrostanti, l’utilizzo della luce naturale, l’attore protagonista che guarda in macchina e, confidenzialmente, si rivolge al pubblico. Le parole d’ordine di Godard sono trasgressione, anarchia ed avanguardia, ma l’obiettivo di questa vivace sperimentazione è basato su uno scopo assolutamente artistico: dar vita ad un cinema nuovo ed autentico, rifacendosi, però, ai modelli immaginari delle pellicole classiche, in questo caso Humphrey Bogart ed il noir americano. Queste tecniche, stranianti, rompono la struttura narrativa tradizionale e modificano anche la fruizione stessa della pellicola, interrompendo, sul nascere, il processo empatico di immedesimazione tra pubblico e personaggi. A tutto questo si aggiunge un citazionismo colto ed esasperato (Godard è uno dei registi di maggior fonte d’ispirazione per Tarantino, che ha addirittura chiamato la sua casa di produzione col titolo di un suo film), che va dal “B movie” d’oltreoceano al neorealismo di Rossellini, dall’hard boiled americano al nostro Antonioni, in una miscela di connessioni tanto geniali quanto “scorrette”, alla maniera dell’autore e dei suoi antieroi. L’uso estremo delle metafore, il rifiuto del divismo e la libertà creativa del regista francese sono già ampiamente presenti in questo suo opus numero uno, che consacrò Jean-Paul Belmondo come futura star internazionale, appiccicandogli addosso quel ruolo da duro strafottente che si porterà dietro per tutta la vita. Chi non ha amato il film lo ha accusato di essere più derisorio che realmente rivoluzionario, più preoccupato di distruggere che di costruire, ma il tempo ha dato ragione a Godard ed ha permesso, grazie ad una maggiore obiettività di analisi, di cogliere in pieno i tanti aspetti artisticamente rilevanti dell’opera, che vanno bene al di là di un mero elenco di innovazioni tecniche. La sua peculiare densità tematica risiede nei contrasti, che sono alla base della sua ispirazione: quello tra realtà e mito, già accennato in precedenza, quello tra dolore ed accidia, due estremi che simboleggiano i personaggi di Patricia e Michel e diventano, quindi, emblematici della separazione tra i sessi, dell’incomunicabilità e della morte. Tutto questo si sublima nel finale geniale e pregnante, Patricia che non comprende le parole di Michel, strizzando l’occhio ad Antonioni, ma anche a Fellini (l’ultima scena de La dolce vita). E’ corretto, quindi, parlare sempre di colta eversione e di creativa amoralità, quando ci si riferisce a Godard ed a questo film in particolare, la cui alta connotazione tragica è più romantica che ideologica, ed assume la valenza di una rivolta non solo morfologica,  bensì concettuale. La pellicola fu premiata al Festival di Berlino con l'Orso d'oro alla migliore regia ed ha anche avuto un insipido remake hollywoodiano: All'ultimo respiro (1983), diretto da Jim McBride e interpretato da Richard Gere.

Voto:
voto: 5/5

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