venerdì 30 gennaio 2015

L'albero degli zoccoli (L'albero degli zoccoli, 1978) di Ermanno Olmi

Fine del 1800, in un cascinale della “bassa” bergamasca, quattro famiglie contadine vivono la loro quotidianità, tra il duro lavoro dei campi, l’allevamento degli animali, le gioie e i dolori di un’esistenza semplice. Il forte legame tra i diversi nuclei familiari li porta a condividere ogni cosa, nel bene e nel male. Quando il piccolo Menek rompe uno zoccolo, suo padre Batistì taglia di nascosto un tronco d’albero per costruirne uno nuovo. Ma il padrone lo scopre e caccia via Batistì e la sua famiglia. Capolavoro di Olmi, che traspone in immagini le vecchie storie contadine ascoltate dai suoi nonni, regalandoci una suggestiva epopea degli umili, realistica, sincera, perfetta nella ricostruzione ambientale e recitata da veri contadini del luogo, senza alcuna esperienza artistica. Con una potente capacità di evocazione lirica, che guarda alle piccole cose per elevarle in una dimensione “mitica” nella loro purezza ancestrale, il regista ricostruisce con puntiglioso rigore la vita contadina dell’epoca, alternando scene di ordinaria quotidianità a momenti di altissima poesia. La rappresentazione dell’antico mondo rurale è appassionata, rigorosa, quasi priva di elementi di critica sociale, perché intende restituirci, in solenne forma di poema cinematografico, tutta la fierezza e la genuinità di quel mondo remoto. Olmi ha la sensibilità di un poeta e l’approccio di un documentarista nel realizzare quest’opera imponente, tra le più importanti in assoluto del cinema italiano, che riattualizza i codici del movimento neorealista, con un occhio all’estetica di autori come Angelopoulos. Da questo autentico confronto con le nostre radici, raffigurato come un universo incontaminato, privo di coscienza di lotta di classe, impregnato sia di credenze pagane sia di cattolicesimo popolare, emergono dei protagonisti pregni di umanità, ora gretti ora solidali, il cui credo è il legame assoluto con la terra e con la famiglia. Senza ricorrere ad alcuna enfasi drammatica o indulgenza nel “romanzo”, il regista lombardo ci offre un cinema limpido, a suo modo integralista per la reticenza di approfondire risvolti politici o relazioni sessuali, ma con tanta anima. Tra i tanti momenti di volo alto dell’opera, sono memorabili il viaggio in barca a Milano dei due sposini e la semina sotto la prima nevicata, antico rituale tramandato da tempi remoti. Nonostante i meriti ed il largo consenso della pellicola ci fu chi, negli ambienti di sinistra, accusò il regista di utopia reazionaria per lo scarso nerbo polemico nei confronti dei “padroni”. L’affascinante colonna sonora, profondamente evocativa nel suo tono sacrale, è costituita da brani di Bach, eseguiti all’organo, e da canti popolari contadini bergamaschi. Esistono due versioni della pellicola: una in dialetto bergamasco con sottotitoli (da preferire) ed una doppiata in lingua italiana. Il film, che ebbe grande successo di pubblico e critica, fu premiato con la Palma d’Oro al Festival di Cannes.

Voto:
voto: 5/5

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