venerdì 9 gennaio 2015

Vivere e morire a Los Angeles (To Live and Die in L.A., 1985) di William Friedkin

In una Los Angeles sporca e “maledetta”, un agente federale di dubbia moralità, Richard Chance, insegue un diabolico falsario, Eric Masters, che ha ucciso un suo collega. In una lotta senza regole e senza esclusione di colpi, che sfocia nell’ossessione, il confine tra bene e male diventa sempre più labile e la violenza regna sovrana. Formidabile poliziesco d’azione di William Friedkin, il migliore in assoluto degli anni ’80, forte di un ritmo incessante, atmosfere cupe, situazioni sordide, personaggi spietati, contrapposti ma speculari nella loro assoluta ambiguità, e ulteriormente arricchito da una soundtrack martellante ed una fotografia livida che rende la “città degli angeli” un luogo di inusitata corruzione, oscuro anche se filmato quasi sempre di giorno. In questo noir metropolitano secco e feroce, il grande regista di Chicago, come già avvenuto in altre occasioni nella sua luminosa carriera, va ben oltre gli stereotipi del genere, riscrivendone gli stilemi con la sua visione violenta del mondo e trasformando il poliziesco in una magistrale opera dal cuore nero, che analizza profondamente i due antagonisti principali, per riflettere sul relativismo del giudizio morale, sulla promiscuità tra crimine e giustizia in condizione estreme e sulla profonda ambiguità della natura umana. Fondendo abilmente la retorica romantica del perdente con l’aurea dannata del cattivo, Friedkin tratteggia una parabola antropologica, cruda e pessimista, di rara potenza tragica e di possente perfidia, che rimanda all’ancestrale istinto di sopravvivenza, ineluttabilmente brutale. In questo film vibrante, che mantiene la “corda” narrativa perennemente tesa, l’autore riesce a filmare persino le scene introspettive o quelle di sesso con l’intensità di una sparatoria e ci consegna una nuova problematica riflessione, come già visto nel suo celeberrimo horror del ’73, sulla relazione tra male assoluto e male sociale. Un altro notevole spunto logico che traspare dalla pellicola è l’evidente rapporto tra ruolo e identità: senza svelare nulla del finale, sembra chiaro come sia il primo a dominare sulla seconda, alla luce degli eventi mostrati (la successione di poliziotti che, quasi “clonati”, portano avanti la missione con il medesimo rinnovato cinismo). Lo spessore concettuale e la densità tematica dimostrano ampiamente che ci troviamo di fronte a qualcosa di ben più alto, più nobile e più complesso di un action poliziesco. Non venne particolarmente apprezzato alla sua uscita, ma il tempo gli ha reso giustizia, come spesso accade in questi casi. Contiene due scene d’antologia: la fabbricazione dei dollari falsi, raffigurata come un’orgia capitalistica, ed una formidabile sequenza di inseguimento automobilistico, una delle più intense e riuscite del cinema d’azione americano, per il quale il film è principalmente conosciuto dal grande pubblico. Nel cast spicca Willem Dafoe che inaugura così la sua lunga “galleria” di villain memorabili.

Voto:
voto: 5/5

Nessun commento:

Posta un commento