lunedì 26 gennaio 2015

Il lungo addio (The Long Goodbye, 1973) di Robert Altman

Il detective Philip Marlowe viene contattato dal suo amico Terry Lennox, che gli chiede di condurlo da Los Angeles al confine messicano per sfuggire a dei misteriosi inseguitori. Poco dopo Marlowe viene a sapere che la moglie di Terry, Sylvia, è stata uccisa e che il suo amico si è tolto la vita in Messico. Preso in carico un nuovo caso, ritrovare uno scrittore alcolizzato scomparso nel nulla da diversi giorni, Marlowe scoprirà una serie di inquietanti sviluppi sulla vicenda dei Lennox, mentre un pericoloso gangster gli dà la caccia, convinto che questi abbia ricevuto una grossa somma dal suo amico Terry. Adattamento “infedele”, ma memorabile, dell’omonimo libro di Raymond Chandler, padre del romanzo nero americano e fondatore del genere “hard boiled” insieme a Dashiell Hammett. “Il lungo addio” è unanimemente considerato il miglior romanzo di Chandler, perché fortemente sentito, struggente, pervaso di suggestioni personali e profondamente accattivante nell’intreccio giallo. Dopo il rifiuto di Howard Hawks, che di Chandler aveva già diretto “Il grande sonno”, il film passò nelle mani di Robert Altman, che ci ha regalato una versione superba, eversiva, di profonda rottura con la tradizione del noir, apportando diversi cambiamenti rispetto al testo letterario. Innanzi tutto il grande regista di Kansas City sceglie di traslare l’ambientazione temporale, attualizzandola agli anni ’70, e rinuncia del tutto alle atmosfere buie, ai locali fumosi, ai contrasti in chiaro scuro, per offrirci un noir luminoso, solare, con la fotografia dai toni caldi, con molte scene diurne che si svolgono all’aperto, addirittura sulla spiaggia e con l’oceano in bella vista. Anche la connotazione di un personaggio iconico come Marlowe, la celebre “creatura” chandleriana alla sua ottava apparizione sul grande schermo, assume caratteristiche nuove, a cominciare dalla scelta dell’attore, un Elliott Gould in una fase di stanca della sua carriera. Il Marlowe di Altman è un antieroe dimesso, malinconico, cupo, stanco, alla ricerca disperata di un senso non solo professionale ma, soprattutto, esistenziale. Altri cambiamenti importanti riguardano la trama, in particolare il finale, profondamente diverso rispetto all’originale, giudicato da Altman troppo fiacco, in favore di un doppio colpo di scena che osa l’inosabile (la vendetta del detective, il perdente per eccellenza secondo i dogmi dell’hard boiled) ed ammicca all’epilogo de Il terzo uomo di Carol Reed. Alla sua uscita il film fu un flop al botteghino e fece storcere il naso ai critici che giudicarono ingenerosa la “distruzione” di un personaggio iconico come Marlowe, in quella che definirono una sorta di satira crudele nei confronti di un genere nobile come il poliziesco nero. Ma il tempo ha permesso un giudizio più obiettivo e distaccato, e quasi tutti oggi convengono nel definire questo nero d’autore come un capolavoro del regista. Il senso del “tradimento” altmaniano, che non a caso si rispecchia nella trama che verte esattamente su questo tema, è perfettamente coerente con la sua carriera, costantemente volta alla sagace revisione iconoclasta dei generi e degli stereotipi hollywoodiani inerenti ad essi. Una revisione irriverente, ardita, spesso geniale, inquadrabile in quelle correnti autoriali d’avanguardia che hanno profondamente cambiato il linguaggio cinematografico negli anni ’60 e ’70, regalandoci capolavori inestimabili. Ma alla base del “tradimento” al noir perpetrato in questo film c’è un topos più profondo di natura esistenziale: l’alienazione, ovvero quel generale senso di smarrimento che investì le nuove generazione americane dopo la caduta delle utopie liberali del ’68, lo scandalo del Watergate e la guerra in Vietnam. L’alienazione è un tema cruciale, e ricorrente, nel cinema d’essai degli anni ’70 che ha dato vita a personaggi emblematici e memorabili come il Travis Bickle di Taxi Driver o l’Harry Caul de La conversazione, figure tragiche e decadenti, messe ai margini dal loro stesso disagio interiore, che poi è lo stesso che anima il Marlowe di Altman. Questo noir rarefatto, spigoloso e rivoluzionario, è anche il migliore dell’età moderna, insieme al Chinatown di Roman Polanski, che, pur scegliendo di guardare ai classici, è ugualmente monumentale. Si dovranno attendere registi come Lynch, Friedkin o i fratelli Coen per trovare un’altra rivoluzione per il genere noir di pari spessore artistico e di analoga portata sintattica. Dunque il “tradimento” di Altman è scientifico, perché critica volutamente i dogmi della vecchia Hollywood con la sua ironia pungente e riformista, ed è anche romantico, perché, pur rinnegando gli stilemi nella forma, li riconferma nella sostanza, creando un contrasto stridente, ma splendido, tra la solarità degli ambienti e l’anima nera delle situazioni trattate. Il lungo addio del romanzo di Chandler è quello al personaggio di Philip Marlowe, che esce di scena definitivamente con questo libro; invece nel film potrebbe tranquillamente riferirsi a tutto il genere noir secondo la concezione tradizionale, di cui questa sontuosa release altmaniana costituisce un punto di rottura definitivo, non indolore ma geniale, necessario, inevitabile, proprio come un addio. E finiamo con una curiosità: nel film compare, non accreditato, un giovanissimo, ma già fisicamente esplosivo, Arnold Schwarzenegger nel ruolo della guardia del corpo del gangster Augustine.

Voto:
voto: 5/5

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