venerdì 9 gennaio 2015

Stardust Memories (Stardust Memories, 1980) di Woody Allen

Sandy Bates è un regista comico in crisi esistenziale ed artistica. Sconfortato e depresso, è costretto a partecipare, durante un weekend, a una rassegna delle sue vecchie pellicole, che si tiene allo Stardust Hotel nel New Jersey. Qui dovrà confrontarsi con produttori agguerriti che vogliono rendere il suo ultimo film più commerciale, con l’invadenza dei fans che rimpiangono la comicità dei suoi primi lavori e con tre donne sentimentalmente importanti della sua vita. Dopo i grandi successi degli anni ’70, Woody Allen decide di girare il suo personale , per omaggiare uno dei suoi registi preferiti (Fellini), uno dei massimi capolavori della storia del cinema e per tracciare un bilancio, in forma onirico grottesca, della sua vita e della sua carriera, tra ironia beffarda e disagio interiore. Il risultato è un’opera ambiziosa e affascinante, a metà strada tra il diario interiore e l’autoanalisi emotiva, rappresentata con un flusso libero, e disordinato, di immagini simboliche. Un’opera forte di alcune sequenze visionarie di notevole suggestione, di uno stile elegante che riluce nella bella fotografia in bianco e nero e di almeno un paio di momenti irresistibili, nel mettere in scena il tormentato dialogo del protagonista con i suoi “fantasmi” personali, che lo conducono sull’orlo della crisi di identità. Divise la critica in modo netto alla sua uscita, tra chi lo osannava (pochi) e chi lo fischiava (la maggioranza), per il suo essere profondamente diverso, e ben più complesso, rispetto alla filmografia dell’autore newyorkese. Le critiche maggiori furono rivolte all’andamento caotico della pellicola, frutto del disordine interiore di Bates, alla sua pretenziosità ed al presunto ermetismo di fondo. Anche la sua graffiante satira nei confronti del pubblico e dei critici, che per me è un valore aggiunto, non aiutò l’indulgenza del giudizio di chi si sentì “colpito”. Viene, pertanto, solitamente relegato tra i flop dell’autore. Ma, invece, i reali punti deboli di questa retrospettiva interiore risiedono in due aspetti essenziali: l’evidente debito calligrafico con il capolavoro felliniano, talmente grande da risultare inavvicinabile, e da mettere, inevitabilmente, in ombra ogni tentativo di “imitazione”. E poi un’eccessiva auto indulgenza estetica, al limite del manierismo, non sempre sostenuta da una pari ispirazione narrativa, con conseguente sensazione di “snobismo” intellettuale. Ma la classe di Allen è indubbia ed ha il suo peso anche in quest’opera atipica, non del tutto compiuta, ma di enorme fascino e di fervida capacità inventiva. Un’opera da molti dimenticata, ma che è da rivalutare. Tra gli altri elementi da citare: l’incisivo prologo surreale (il sogno ambientato sul treno), la notevole interpretazione di una splendida Charlotte Rampling e la fugace apparizione, nel sogno iniziale, di una giovanissima Sharon Stone, al suo esordio cinematografico.

Voto:
voto: 3,5/5

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