venerdì 16 gennaio 2015

Le mani sulla città (Le mani sulla città, 1963) di Francesco Rosi

Napoli, inizio anni ’60: Eduardo Nottola, consigliere comunale di destra e costruttore edile, utilizza la politica per assicurarsi la gestione degli appalti principali in città, tra cui un grande progetto edilizio finanziato da fondi statali. Ma i lavori di un cantiere della sua impresa causano il crollo di un palazzo in un vicolo del centro, provocando due morti e diversi feriti, tra cui un bambino che perde l’uso delle gambe. Messo sotto inchiesta, viene abbandonato dal suo partito, che teme uno scandalo su scala globale in vista delle imminenti elezioni. Ma il viscido Nottola, abile trasformista politico, cambia schieramento, vince le elezioni sotto la nuova “bandiera” e, tramite loschi giochi di potere, riesce persino a farsi nominare assessore, dando così il via al suo megaprogetto immobiliare, che cambierà per sempre il volto della città. Rosi ambienta nella sua Napoli, da sempre fervida fonte d’ispirazione per il cinema e le arti in genere, questo possente dramma di denuncia, a metà strada tra il thriller politico, il documento storico e la critica sociale, tanto romanzato quanto verosimile. Come recita la tagline della pellicola: “I personaggi e i fatti qui narrati sono immaginari, è autentica invece la realtà sociale e ambientale che li produce”. Con la consueta capacità critica, la lungimiranza dello sguardo, l’impegno civile e la veemente indignazione morale, il grande regista napoletano traccia un amaro bilancio, in perdita, dei primi anni del boom economico, con questa spietata apologia del malcostume politico che intende denunciare, perentoriamente, le speculazioni edilizie che hanno deturpato il panorama delle grandi città italiane, opprimendolo sotto colate di cemento. La crescita demografica e il diffuso benessere economico hanno innescato quel meccanismo perverso che, con la complicità di politici corrotti e faccendieri conniventi, ha generato il triste ciclo della corsa alla cementificazione selvaggia: con appalti truccati, tangenti, appropriazione di denaro pubblico, crescita esponenziale dei cantieri, urbanizzazione spudorata e indecorosa, per arricchire un manipolo di sciacalli speculatori a danno della collettività. I meriti del film, storici, sociali, estetici e “profetici”, sono indubbi ma, come al solito, fece arrabbiare parecchio la classe politica, che lo accusò di populismo sovversivo, sebbene sia evidente quanto sia stato perspicace nel prevedere tutto quello che oggi, purtroppo, è tristemente noto. Rispetto allo straordinario predecessore, Salvatore Giuliano, questa nuova gemma polemica dell’autore campano appare più aspra, più cinica, ma meno complessa e meno geniale. Nel cast spiccano un istrionico Rod Steiger, tenuto saldamente a freno dal regista, ed un luciferino Salvo Randone, figure sinistre quanto emblematiche di un atavico malcostume tipicamente italiano che è, a tutt’oggi, duro da estirpare, come un cancro sociale che si rigenera in continuazione. Premiato al Festival di Venezia con il Leone d’Oro, è un’altra pietra miliare nella filmografia di Rosi e nel cinema d’impegno civile italiano.

Voto:
voto: 4,5/5

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