venerdì 30 gennaio 2015

Questa è la mia vita (Vivre sa vie, 1962) di Jean-Luc Godard

Nanà lavora come commessa in un negozio di dischi a Parigi, ma guadagna troppo poco e non riesce a pagare l’affitto. Inizia a fare, occasionalmente, la prostituta, ma viene ben presto assorbita da quel tipo di vita e finisce sul marciapiede a tempo pieno. Dopo un po’ di tempo vorrebbe uscirne e tornare ad un’esistenza normale, ma il suo protettore non è d’accordo, anzi intende “venderla” ad un nuovo sfruttatore. Ispirandosi all’inchiesta giornalistica “Où en est… la prostitution?” di Marcel Sacotte, Godard ha realizzato un rigoroso documento di denuncia, di incredibile realismo e di fervido impegno sociale, sul mondo della prostituzione, sfrondandolo di ogni sorta di fascinazione “romantica” e di ogni morbosità pruriginosa, ma esibendolo, semplicemente, nudo e crudo, filtrato attraverso il suo sguardo originale. Il film è diviso in 12 segmenti tra loro slegati e annunciati da una didascalia, alla maniera del cinema muto, ispirandosi, in parte, alla struttura di Francesco, giullare di Dio (1950) di Rossellini. Questo film è uno degli indubbi capolavori del primo periodo dell’autore, assolutamente pregevole per la capacità di conciliare il senso di rottura del suo linguaggio d’avanguardia con l’analisi critica della società contemporanea, rifratta attraverso il suo inquieto scandaglio dell’immediato, per catturare il divenire della vita in un quanto “definitivo”. L’opera, altamente sperimentale nella struttura e nello stile, con suono in presa diretta, brani letterari letti dagli attori, un registro narrativo diverso in ciascun segmento ed un uso massivo dei piani sequenza, è densa di citazioni colte, da Edgar Allan Poe a Bertolt Brecht, da Dreyer a Rossellini. La prostituzione viene presentata come una metafora del teorema euristico del consumismo: domanda, offerta, vendita, consumo, in un gioco di scatole cinesi. La messa in scena straniante e prosciugata dell’autore parigino rendono quest’opera una sorta di asettico trattato, di valenza sociopolitica, sul commercio sessuale, privo di ogni forma di sensualità e di compiacimento voyeuristico: la prostituzione è, innanzi tutto, intellettuale, il resto sono solamente dettagli morbosi. Come sempre nel primo Godard, egli non entra mai dentro le storie che racconta, ma le utilizza per definire se stesso, ed il suo pensiero, in uno stile personale e fortemente riconoscibile. Memorabile, in tal senso, l’episodio in cui Nanà va al cinema per vedere La passione di Giovanna d’Arco di Dreyer, grande Maestro del cinema nordico divenuto un simbolo della purezza dell’immagine, dell’essenzialità narrativa e della rinuncia alla decorazione strumentale. La sovrapposizione dei volti di Nanà e di Giovanna, messa in atto da Godard, mentre la protagonista si rispecchia nel dramma della “pulzella d'Orléans” per evidenti affinità emotive, è un po’ la summa della sua estetica: arte e vita in un gioco di specchi, realtà e finzione nel medesimo piano visivo. I 12 segmenti che costituiscono il film vennero definiti “quadri” dallo stesso regista, ovvero 12 pezzi della vita di Nanà, 12 istantanee diverse per definire un personaggio, un percorso individuale, oppure, se li si intende come 12 riflessi di uno specchio in frantumi, per arrivare a concludere che Nanà non può essere definita, che la sua reale identità è sfuggente, è altrove. Le tante inquadrature fatte di spalle, o in posizioni strane, alla protagonista, farebbero propendere per quest’ultima interpretazione, come se l’ultima trasgressione dell’autore alle convenzionali regole della grammatica cinematografica sia quella di negarne l’esistenza, ammettendo che non esistono regole. Come chiosa sopraffina di questo discorso complesso sulla mercificazione del corpo, visto alla stregua di un oggetto dotato di un valore, e, quindi, vendibile, Godard regala alla “sua” attrice un atto d’amore, con la lettura, nell’ultimo “quadro”, de “Il ritratto ovale” di Poe, eseguita dalla sua stessa voce. Eccellente l’interpretazione di Anna Karina, all’epoca moglie del regista, nel ruolo della protagonista Nanà, non priva di reali tormenti interiori e difficoltà extra cinematografiche, che hanno, probabilmente, giovato alla riuscita finale del personaggio. Il film vinse il premio speciale della giuria al Festival del Cinema di Venezia.

Voto:
voto: 5/5

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