venerdì 9 gennaio 2015

Manhattan (Manhattan, 1979) di Woody Allen

Isaac Davis è un autore televisivo di mezza età che sta scrivendo un libro sulla sua città, New York. Separato dalla moglie e fidanzato con una studentessa minorenne, Tracy, finirà sentimentalmente invischiato con la raffinata Mary, la donna del suo migliore amico. Capolavoro di Woody Allen che, tra dramma e commedia, ironia e tenerezza, celebra sontuosamente la sua città, omaggiandola con gli occhi di un innamorato e ritraendola, nelle sue angolazioni, nei suoi panorami mozzafiato, nelle sue mille contraddizioni come simbolo della grandezza e della decadenza della civiltà occidentale. Con questo atto d’amore smisurato, al limite dell’idolatria, Allen rende New York, anzi Manhattan, la protagonista assoluta del suo film più bello, eternandola, in uno sfavillante bianco e nero, con immagini di assoluta bellezza. Fin dal memorabile prologo, entrato di diritto nella storia del cinema, accompagnato dalle avvolgenti note di George Gershwin, l’autore ci fa capire le sue intenzioni: tracciare un’agiografia di parte, come ogni amante che si rispetti, dello skyline più famoso del mondo. La magnifica sequenza d’apertura, teatrale e sardonica, è la chiave di accesso immediata al tono ed al senso della pellicola: una sfolgorante rapsodia dei temi tipici alleniani, tenuti insieme con una coerenza stilistica, una vis comica, una brillantezza nei dialoghi ed una ricchezza di invenzioni ironiche mai più viste, a tali livelli, nella carriera del grande regista newyorkese. Tra le solite coppie che scoppiano, amori inquieti, nevrosi esistenziali, paranoie depressive, adorabili insicurezze ed instabilità emotive, Allen si destreggia, con magistrale autorità, raffinata eloquenza e pungente autoironia, dimostrando di aver raggiunto l’apice della sua maturità artistica. Questo film, che con Io e Annie e Hannah e le sue sorelle costituisce una triade inarrivabile nella storia della commedia americana, è il migliore ed il più rappresentativo di Woody Allen, una sorta di “bignami” della sua arte e della sua capacità di narrare vicende drammatiche con toni da commedia, bilanciando i toni opposti con un geniale uso dell’ironia. Ma ciò che rende unico questo film nella produzione alleniana, che ha sempre privilegiato la sceneggiatura scegliendo una messa in scena classica senza particolari virtuosismi, è la sua magnificenza estetica, la sua ricercatezza formale che si esplicita nella sontuosa composizione delle immagini, nell’utilizzo dei contrasti tra luci e ombre, nella creazione visiva di atmosfere sublimi, al punto da convincerci tutti che la bellezza di Manhattan non può che essere fotografata così: in bianco e nero. Si pensi, ad esempio, alla celeberrima sequenza di Isaac e Mary seduti sulla panchina, davanti al Queensboro Bridge, alle prime luci dell'alba, che è divenuta, nell’immaginario collettivo, una delle immagini più iconiche e significative della “grande mela”. Il finale aperto, sereno, un po’ dolce e un po’ amaro, con la lezione di maturità che arriva dalla bocca della diciassettenne Mary, è un ulteriore perla in un’opera profondamente ricca, il colpo di coda di un genio della “commedia nevrotica”. Nel grande cast, oltre al solito mattatore Woody, sono da segnalare Michael Murphy, Diane Keaton, Meryl Streep e Mariel Hemingway, tutti bravissimi. In sintesi: un innovativo splendore visivo (caso unico, a questi livelli, per il regista), una spudorata freschezza narrativa (perfettamente rappresentata dal personaggio di Isaac, in bilico tra immaturità ed intelligenza) ed il controllo assoluto della materia filmica, unite ai consueti punti di forza del cinema di Allen (sceneggiatura, dialoghi, battute, personaggi), per dar vita al suo film migliore, quello che resterà.

La frase: “New York era la sua città, e lo sarebbe sempre stata!”

Voto:
voto: 5/5

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