lunedì 26 gennaio 2015

L'asso nella manica (Ace in the Hole, 1951) di Billy Wilder

Charlie Tatum è un giornalista senza scrupoli, alla disperata ricerca di uno scoop che possa risollevarne la carriera in declino. L’occasione arriva quando un malcapitato, Leo Mimosa, resta bloccato in una grotta per colpa di una frana. Il diabolico reporter mette in piedi una perfida macchinazione per ritardare i soccorsi, assicurandosi il colpo giornalistico con la massima visibilità possibile. Divenuto amico di Mimosa, usa la situazione a suo vantaggio per garantirsi la gestione completa delle operazioni mediatiche e diventa persino l’amante della subdola moglie. Finale tragico. Tra i tanti capolavori di Wilder questo è, senza dubbio, il più cinico, il più amaro ed il più spietato, con uno dei cattivi più spregevoli in assoluto della storia del cinema hollywoodiano. Interpretato dal divo Kirk Douglas, la cui carriera ebbe un non casuale stallo dopo questo ruolo controverso, il luciferino Charlie Tatum generò sconcerto nel pubblico, fece infuriare l’opinione pubblica e determinò il flop commerciale della pellicola, indubbiamente troppo dura per la società statunitense dell’epoca, vessata dallo spettro del maccartismo e intimorita dall’incubo della guerra atomica. Eppure l’esperto Douglas fece di tutto per convincere il grande regista a rivedere qualcosa, a smussare qualche angolo, per rendere il suo protagonista un po’ meno odioso, ma Wilder, lungimirante come tutti i geni, aveva le idee chiare e non arretrò di un passo. Il tempo gli ha dato ragione, consentendo la meritata rivalutazione di questo melodramma nero, senza speranza, senza morale, senza rimorso, senza redenzione, che non dà tregua allo spettatore e quasi lo attanaglia nella sua cruda analisi sociale. Il film si erge, con largo anticipo sui tempi ma con lucido senso critico e con profetica precisione, a sinistro apologo della spietatezza cinica dei mass media, disposti a tutto in nome dell’audience. Ma l’accusa dell’autore non si rivolge solo al giornalismo scandalistico d’assalto, e a quegli imbonitori mediatici disposti a vendere l’anima al diavolo in nome del successo personale, ma anche al pubblico credulone, morboso, che si rende complice di questo perverso meccanismo che spettacolarizza il dolore infischiandosene della vittime, e, quindi, parimenti colpevole. Il dark side del sogno americano ci viene, quindi, svelato in tutta la sua abominevole potenza: la società dello spettacolo infame che, sotto l’egida del diritto di cronaca, prolifera sul sangue e sulla dignità delle povere vittime. Altro aspetto non meno importante della requisitoria di Wilder, è il denaro visto come controvalore della vita umana e come motore supremo della società moderna. L’altra faccia del regista, quella iconoclasta, sempre ben mascherata sotto la sua tagliente satira sardonica, trova supremo compimento in questo film rivelazione, duro ma ineccepibile nella sua spietata analisi antropologica, che seppe cogliere per primo i venti di quella crisi morale, collegata ai mezzi d’informazione e al loro nefasto potere coercitivo, che poi esploderà vent’anni dopo. Questo film magistrale è fondamentale, e fondante, per tutta la cinematografia successiva sui lati oscuri del “quinto potere”, un assoluto antesignano d’autore. Visto l’insuccesso della pellicola la produzione provò a mescolare le carte, cambiando il titolo in The Big Carnival, ma senza alcun risultato concreto. Kirk Douglas, nonostante il disagio, fornì comunque un’interpretazione eccellente, rendendo il suo personaggio un villain di memorabile statura malvagia, un monumento alla disumanità che solo il boicottaggio generale dell’opera non ha reso di pubblico dominio.

Voto:
voto: 4,5/5

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