lunedì 26 gennaio 2015

Giorni perduti (The Lost Weekend, 1945) di Billy Wilder

Danny Berman è uno scrittore fallito, un uomo miserabile e disperato, abbrutito dal vizio dell’alcool che lo ha privato di ogni dignità. Vive a spese del fratello ed è sostenuto “eroicamente” dalla sua donna, che gli perdona tutto e lo aiuta sempre, al limite del masochismo. Succube della dipendenza alcolica, Danny trascorre le sue indolenti giornate cercando il modo di procurarsi i soldi per bere, con strategie sempre più ardite e pericolose. Il baratro è a un passo ma l’amata Helen è sempre lì, pronta a soccorrerlo. Tratto da un romanzo di Charles Jackson, è il film più espressionista di Wilder, possente dramma sul tema dell'alcolismo con toni cupi da noir, ambientato in una New York da incubo allucinato. Geniale l’idea del regista di rappresentare il vizio del bere, storica piaga sociale della società americana, come un fatto “privato”, un triste spettacolo in “solitario” di un uomo allo sfacelo, sprofondato in una spirale di perdizione senza uscita apparente. Questo viaggio all’inferno (di andata e ritorno) è un ritratto di dannazione di solenne spessore tragico, emotivamente instabile come il suo protagonista. Senza retorica moralistica o sentimentalismi edificanti (finale a parte), l’autore mette in scena con austero rigore, ma non senza partecipazione pietosa, una deriva autodistruttiva tanto folle quanto angosciante, un cupio dissolvi di profondo sgomento etico per la perdita di ogni barlume di umano decoro. Famosissima la scena, agghiacciante, dell’incubo alcolico di Berman, con topi, scarafaggi e pipistrelli che fuoriescono dalla parete; è una delle sequenze più forti del cinema di Wilder, che enfatizza visivamente la denuncia sociale alla base dell’opera, per indurre il massimo shock, con conseguente scossone morale negli spettatori, bevitori e non. Il regista aveva intenzione di rendere anche omosessuale il suo tragico protagonista, ma la produzione si oppose decisamente, avendo la meglio, ritenendo la cosa troppo “sconveniente” per i tabù dell’epoca. Il finale troppo lieto, e quindi poco credibile, appare stonato, frettoloso e superficiale rispetto al tono crudo dell’opera, ma non basta a sminuirne l’alto valore complessivo. Fu, probabilmente, il prezzo da pagare, per l’ancor giovane regista, sull’altare del politicamente corretto hollywoodiano. Vinse quattro Oscar “pesanti”: miglior film, regia, sceneggiatura e Ray Milland straordinario protagonista e venne premiato al Festival di Cannes con la Palma d’Oro. Andrebbe mostrato, ancor’oggi, come deterrente ai sostenitori del “bicchierino in più”.

Voto:
voto: 4/5

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