domenica 4 gennaio 2015

Lanterne rosse (Da hong deng long gao gao gua, 1991) di Zhang Yìmóu

Nella Cina degli anni ’20 la giovane Songlian, bella e colta, in seguito alla morte del padre accetta di diventare la quarta moglie di un ricco e maturo signorotto. Andrà quindi a vivere con lui e le altre tre mogli in uno sfarzoso edificio, sottostando ad un antico rituale di sottomissione: l’attesa passiva delle lanterne rosse appese alla propria porta, segno tangibile che il marito-padrone avrebbe passato la notte con lei. Dal romanzo “Mogli e concubine” di Su Tong, Zhang Yìmóu ha tratto un superbo e doloroso ritratto storico della condizione femminile cinese nel periodo dei “signori della guerra”. Formalmente elegantissimo, con un raffinato gioco di contrasti nei colori e nei toni ed una perfezione geometrica delle inquadrature che esplorano la grande casa come le stagioni del cuore della protagonista, è un dramma esistenziale solenne ed austero che lavora per difetto, ovvero sottraendo progressivamente il quid emozionale. Il suo colore, il rosso, non è quello della passione ma del sangue e della vergogna. Una vergogna sociale, morale e storica per l’aberrante sfruttamento delle donne, ridotte a serve sottomesse, schiave adoranti e oggetti sessuali in nome del maschilismo più bieco. La geniale idea delle lanterne, volute dal regista e assenti nel romanzo, dà forma tangibile al simbolo pregnante della contraddizione: esse sono, infatti, il premio per la notte che verrà e la maledizione per il suggello dell’ignominia. Ma sono anche il motivo di scontro tra le quattro mogli, vittime ignave della stessa sorte che, anziché unirsi, si dividono, combattendo per degli avanzi di attenzione e favorendo, quindi, il giogo del dispotico padrone. Tra tradizione e innovazione, rigore stilistico e indignazione morale, densità tematica e vigore metaforico, l’autore ci consegna una testimonianza bellissima e terribile, il cui splendore visivo è secondo solo all’inflessibilità della denuncia, enfatizzata ulteriormente dalla provocante carica sensuale che permea le scene rituali del film. Geniale, e segno ulteriore di assoluta personalità autoriale, la scelta di non mostrare mai in primo piano il volto del padrone, aumentandone così lo status dispotico e la carica oscura. Impeccabile e commovente Gong Li, musa e per lungo tempo compagna di vita del regista, nel ruolo della protagonista. Il film, proibito nella Repubblica Popolare Cinese, è stato premiato con il Leone d’Argento al Festival del Cinema di Venezia 1991.

Voto:
voto: 5/5

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