venerdì 9 gennaio 2015

Paris, Texas (Paris, Texas, 1984) di Wim Wenders

Un uomo di nome Travis ricompare dopo quattro anni in cui sembrava sparito e viene accolto dalla famiglia di suo fratello Walt. Travis ha alle spalle un passato doloroso, in cui ha commesso molti errori che l’hanno allontanato dalla bella e giovane moglie, Jane, e dal loro figlio, Hunter. Tutti i traumi dell’uomo sembrano connessi ad una piccola sconosciuta località: Parigi, in Texas, le uniche parole da lui pronunciate dopo il suo ritrovamento nel deserto californiano. Deciso a recuperare il tempo perduto, Travis cerca di ricostruire il rapporto col figlio, accolto e cresciuto da suo fratello, e di ritrovare Jane, che vive a Houston dove lavora in uno squallido “peep-show”, un locale dove le donne si esibiscono in spettacoli erotici protette da un vetro, senza poter vedere i loro clienti ma ascoltandone la voce attraverso un interfono. L’ultimo film del “periodo americano” di Wenders è una struggente elegia, in forma malinconica, sul tempo e sulle occasioni perdute, che rilegge in maniera critica, e a tratti dolorosa, la “mitologia” della seconda occasione, tipica dell’american way of life. Raffinato ed astratto, introspettivo e profondo, come il suo regista, è un ammaliante labirinto di sensazioni di cui si cerca il senso, più che l’uscita, a mano a mano che la trama si dipana, lentamente ma inesorabilmente, ricostruendo il puzzle della vita di Travis come in un mistery d’alta classe. E’ un road movie spirituale, unico nel suo genere, costruito su tempi lenti, atmosfere avvolgenti, scenari abbacinanti ed alto risalto cromatico, splendidamente raffigurati nella preziosa fotografia di Robby Müller, che conferisce al film un fascino unico, al tempo stesso conturbante e straniante. Il viaggio di Travis è quello dell’uomo alla ricerca di se stesso, in fuga dai propri fantasmi che sa di non poter scacciare mai, ma con cui deve provare a convivere per rimediare agli errori del passato. E’ un viaggio lungo perché grande è lo smarrimento interiore di fronte al male, all’amore, al senso di inadeguatezza ed alla bellezza, quella, abbagliante, di una Nastassja Kinski, golfino rosso e schiena nuda, che con un semplice gesto si volta e ci consegna un’immagine iconica, indimenticabile, più potente di mille dialoghi. Wenders regala, non senza compiacimento manieristico, una grande lezione di cinema europeo agli americani e lo fa, non a caso, nel territorio simbolo di un certo immaginario a stelle e strisce: il Texas. Nel cast spiccano i due protagonisti, entrambi perfetti per i rispettivi ruoli: un dimesso Harry Dean Stanton, simbolo compiuto del rimorso lacerante, ed una luminosa Nastassja Kinski, che incarna egregiamente il desiderio supremo, troppo perfetto per essere raggiunto. Premiato a Cannes con la Palma d’Oro, è un’opera di eccezionale bellezza formale, profonda complessità tematica e suggestiva rarefazione enigmatica, declinate con una sensibilità che lascia ammirati. E’ uno degli indubbi capolavori di Wenders.

Voto:
voto: 4,5/5

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