venerdì 16 gennaio 2015

Full Metal Jacket (Full Metal Jacket, 1987) di Stanley Kubrick

Scene dalla guerra in Vietnam divise in due parti: nella prima ci viene mostrato il duro addestramento dei marines al campo reclute di Parris Island, sotto il giogo feroce del terribile sergente Hartman, capo istruttore dei giovani coscritti. Attraverso metodi brutali, rituali assurdi, angherie psicologiche e umiliazioni di ogni tipo, Hartman mira a un solo scopo: tramutare questi uomini in killer spietati, letali macchine da guerra che non conoscono esitazione. Il mite soldato Lawrence, soprannominato "palla di lardo", non resiste ai continui soprusi, di cui è vittima per la sua goffa indolenza, e impazzisce. Nell’ultima notte al centro di addestramento, uccide il sergente istruttore e poi si toglie la vita. Nella seconda parte le reclute sono diventate dei marines e sbarcano in Vietnam, dove trovano una situazione complessa, una guerra atroce, un generale senso di sfiducia ed un fiero oppositore che non dà tregua. Inviati nella città di Huè, sventrata dai bombardamenti, saranno decimati dal fuoco di un letale cecchino, che sembra l’incarnazione stessa della morte. Il protagonista principale di entrambi i segmenti è il soldato Davis, detto “Joker” per il suo carattere scherzoso, che tende a sdrammatizzare ogni situazione. Tornerà a casa vivo, cambiato e “senza più paura”. Kubrick torna a parlare di guerra, dopo il suo capolavoro assoluto, Orizzonti di Gloria, che è una delle vette dell’antimilitarismo, adattando il romanzo “Nato per uccidere” (“The Short-Timers”) di Gustav Hasford, un ex Marine e corrispondente dal fronte, proprio come “Joker”. Era quasi impossibile, per uno come lui, non fare i conti, prima o poi, con il conflitto in Vietnam, nemesi e vergogna della storia americana, sebbene questo sia stato “abusato” da una filmografia cospicua quanto eccellente, con alcuni capolavori e diversi film validi ad esso dedicati. Ma il grande regista, che aveva tempi biblici di lavorazione per la sua maniacale ossessione di controllo assoluto sulle sue opere, con continua ricerca della “perfezione”, fu anticipato da Oliver Stone con il suo Platoon, che vale la metà del film di Kubrick ma che ebbe un grande successo di critica e pubblico, vincendo 4 Oscar “pesanti”, tra cui miglior film. Tutto questo tolse visibilità a Full Metal Jacket, che, uscito poco dopo, fu considerato da molti spettatori come l’ennesimo film sul Vietnam, ottenendo incassi poco lusinghieri, anche a causa del pesante divieto ai minori di 18 anni, imposto dalla censura per i contenuti forti e la violenza estrema di alcune sequenze. In realtà quest’opera spiazzante, atipica ed assolutamente originale per concezione ed impostazione, è un altro capolavoro nella formidabile carriera dell’autore, l’ennesimo tassello della sua azione di “ridefinizione” dei canoni cinematografici attraverso la sua visione, particolare quanto geniale. Fin dal suggestivo prologo del taglio dei capelli ci rendiamo conto di essere di fronte ad un film diverso, che sceglie volutamente di eliminare quasi del tutto i “protagonisti” iconografici delle pellicole di questo tipo; innanzi tutto scompare il Vietnam, così come lo abbiamo sempre inteso nel nostro immaginario: totalmente assente dalla prima parte ambientata a Parris Island, compare in forma inusuale nella seconda con scenari cupi e angoscianti di città in disfacimento, che fanno più Europa dell’est che foreste tropicali, come invece vorrebbe la tradizione. Il Vietnam di Kubrick è un luogo elusivo, un simbolo vacante, un vuoto interiore, metafora del non senso e, quindi, dell’assurdità della guerra. E se il Vietnam è assente, anche i viet-cong non si vedono mai, sono una minaccia costantemente incombente ma senza volto, senza corpo, persino il terribile cecchino, che terrà in scacco un intero plotone di “assassini” addestrati a tutto, si rivelerà una beffarda sorpresa, ulteriore allegoria del non senso prima citato. E persino la guerra, quella materiale fatta di spari, di sangue e di bombe, è latitante per tre quarti del film, per poi apparire in tutta la sua ferocia nella parte finale a Huè. La guerra di Full Metal Jacket è essenzialmente interiore, psicologica, è il dark side dell’animo umano, è l’istinto belluino di sopraffazione, che viene risvegliato, con un incessante lavaggio del cervello, da zelanti galoppini del potere (Hartman), fino allo sfinimento psichico, all’annullamento morale ed alla trasformazione dell’uomo nel suo lato oscuro, violento, primordiale. La guerra di Kubrick è uno stato mentale, un confine estremo, un punto di non ritorno, che pochi riescono a sostenere senza impazzire e da cui non si può mai più uscire, se non corrotti, annichiliti, cambiati in peggio. Per enfatizzare ulteriormente lo straniamento che deriva da queste assenze, Kubrick ricorre ad un espediente già visto nel suo cinema, ovvero determinare una palese contrapposizione tra il realismo dei toni e dei contenuti e l’evidente astrazione dei luoghi e degli scenari. Non a caso il film venne girato nei sobborghi di Londra “travestiti” da Vietnam, per innescare questo disagio visivo nello spettatore. Anche la lunga sequenza dell’intervista fatta dalla troupe televisiva ai soldati al fronte va letta in tal senso, il doppio livello di raffigurazione della guerra induce una distorsione della “realtà” filmica, una sorta di illusione dentro l’illusione che mantiene alto il livello di smarrimento. In questo film glaciale, crudo e agghiacciante, non esistono eroi, né nobili ideali, non esiste retorica, né patriottismo, né speranza. C’è solo l’orrore, insensato, della guerra ed il senso di sconcerto che ne deriva, in chi la fa e in chi la subisce. Ed il nonsenso, elemento cruciale dell’intero pellicola, continua a manifestarsi anche nel possente finale surreale, i soldati che marciano di notte tra le macerie cantando “viva Topolin”, l’ultimo stridente contrasto di questo capolavoro, straordinario e fortemente innovativo, come solo un film di Kubrick sa esserlo. E, al solito, anche in questa pellicola l’aspetto tecnico, la fotografia e la scelta delle musiche sono di altissimo livello, come in tutte le opere del regista. Un’altra “scommessa” vinta e un’altra pietra miliare di una carriera che ha pochi eguali.

Voto:
voto: 4,5/5

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