giovedì 29 gennaio 2015

Ombre (Shadows, 1959) di John Cassavetes

Tre fratelli di colore, Hugh, Ben e Leila, si scontrano con un contesto sociale mediocre e con la frustrazione derivata dalla difficoltà di realizzare le proprie velleità in campo artistico. Leila ha una relazione con un bianco da cui ricava soltanto umiliazioni, Ben deve fare i conti con i pregiudizi razziali del suo giro di conoscenze, Hugh, che è un bravo cantante, sarà l’unico a sapersi ritagliare uno scopo gratificante nella società. Il regista di culto John Cassavetes è il padre del cinema indipendente americano e questo suo folgorante esordio è l’affascinante manifesto artistico del così detto “cinema verità”, a metà strada tra film e documentario. Ambientato a New York negli anni della “Beat generation”, affronta il tema scottante dell’integrazione razziale, con una modalità ed una lucidità che lasciarono spiazzati pubblico e critica, rivelando subito il talento del giovane regista newyorkese come eccellenza della cinematografia d’avanguardia. Il film fu girato due volte da Cassavetes, nel ’57 e nel ’59, ed egli preferì la seconda versione, scegliendola per la distribuzione in sala. La prima, da tutti ritenuta perduta, è stata ritrovata, casualmente, nel 2004, da uno studioso del regista che non l’ha mai resa interamente pubblica. La forza sovversiva di questo film è nello stile, che sceglie un realismo formale senza mezzi termini: girato con camera a mano, con dialoghi e sequenze spesso improvvisate, senza una vera e propria trama o una sceneggiatura nel senso classico del temine, con una colonna sonora jazz firmata da Charles Mingus ed un’atmosfera che fotografa perfettamente lo spirito dei tempi, restituendocene tutta la potenza in forma di documento storico. Appartiene allo stesso movimento culturale, fortemente innovatore, che, in Francia, darà origine alla Nouvelle Vague e molti lo hanno, giustamente, paragonato ad una suite jazzistica, per la capacità di creare arte, verità e vibrazioni con la forza dell’improvvisazione. La messa in scena depotenziata, priva di vigore drammatico, in nome dell’esigenza di assoluta spontaneità, e la sua struttura irregolare, ne fanno un prodotto ostico, indigesto al pubblico mainstream, ma di enorme spessore culturale come simbolo di un’epoca di rinnovamento ideologico e sociale. L’immersione garbata nei flussi di vita dei tre protagonisti consente di arrivare al tema portante del film, la questione razziale, attraverso percorsi differenti ma convergenti, in cui l’impianto non “a tesi” è garantito dalla coralità dei punti di vista. Emblematica la scelta dei tre protagonisti, tutti di colore ma con tonalità differenti di nero, ad esempio Leila è particolarmente “chiara”, a testimoniare l’assurdità di una classificazione basata sul solo colore della pelle, che è di arduo discernimento già solo a livello macroscopico. L’autore gioca abilmente su questo aspetto di indeterminazione proprio in relazione al personaggio di Leila, che molti scambiano per bianca ma che viene vista come “nera” quando sta insieme ai fratelli. Altrettanto emblematico il contrasto, perfettamente evidenziato dal regista, tra una società mentalmente aperta ed affamata di nuovi modelli culturali, come quella della “Beat generation”, e la sua rigida chiusura di fronte alle differenze etniche, retaggio di un atavico pregiudizio che nasce dall’ignoranza. Il modello concettuale alla base dell’opera, e di tutto il cinema di Cassavetes, è che la vita non sia rappresentabile con uno schema statico, ma solo tramite un libero fluire di immagini in divenire, un continuo “work in progress” di cui non è mai chiaro il percorso. A questa esigenza rispondono tutti i suoi canoni stilistici che, in quest’opera prima, trovano un riscontro di incredibile risalto espressivo. Le ombre evocate dal titolo sono quelle di una generazione che ambisce a crescere, ma non riesce ancora a trovare una sua chiara identità. Più che un film bello è un film storico, fondamentale, discriminante.

Voto:
voto: 5/5

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