domenica 25 gennaio 2015

Il divo (Il divo, 2008) di Paolo Sorrentino

Vita pubblica e privata di Giulio Andreotti, catalizzatore e snodo cruciale dei principali eventi della storia politica italiana per quasi 50 anni. Il film ne racconta le vicende essenziali dei primi anni ’90: dal suo settimo incarico come capo di governo fino al processo palermitano per presunte collusioni con la mafia, passando per omicidi eccellenti, aneddoti personali, la nascita della “corrente andreottiana”, la sconfitta nella corsa al Quirinale, tangentopoli ed il presunto, famoso bacio con il boss Totò Riina. Al suo quarto film il talentuoso Paolo Sorrentino si confronta, coraggiosamente, con uno dei generi nobili del cinema italiano: il cinema politico e socialmente impegnato, tra l’altro dedicato a un personaggio reale, famoso, controverso, ovvero il politico per eccellenza della vecchia Repubblica, Giulio Andreotti, la cui glaciale e serafica impassibilità è seconda solo alla sua mimetica scaltrezza. Senza temere confronti con i registi che hanno fatto la storia del cinema politico italiano (Rosi, Petri, Pontecorvo, Damiani, Lizzani, Ferrara, Giordana), Sorrentino realizza, con personalità e audacia, un biopic politico surreale, intriso di una pungente cifra di grottesco che vira nell’astrazione visionaria e rende il “divo” Andreotti una sorta di archetipo concettuale del potere e del male, simbolo scomodo di un paese contradditorio, imperscrutabile, geniale e cialtrone, a seconda delle situazioni. Il regista napoletano affida a Toni Servillo, suo attore feticcio, l’arduo compito di interpretare Andreotti, sapendo benissimo che, da questa caratterizzazione, dipende il destino del film. Servillo, come al solito, si dimostra impeccabile, all’altezza del compito, evitando saggiamente il rischio “Bagaglino”, ovvero della parodia tragicomica e del ridicolo involontario. Con un’interpretazione sagace, asciutta, sulfurea, con un efficace lavoro per sottrazione, tranne che nella scena madre del monologo in cui assistiamo allo sfogo delirante di un uomo alla corda, salvo poi ricomporsi subito nel consueto atteggiamento da sfinge, l’attore campano cerca l’anima del personaggio, nascosta sotto la maschera indecifrabile, e ci regala un Andreotti inedito, filtrato attraverso una prospettiva artistica, onirica e, quindi, nuova. Dopo un inizio da thriller, che guarda al feroce documento di cronaca nera, con un’efferata sequenza di delitti eccellenti che hanno scosso la vita pubblica del “belpaese” nel corso dei decenni, Sorrentino ci immerge subito nell’atmosfera kafkiana che sarà la cifra stilistica dell’opera, in cui il giudizio finale e l’indignazione morale vengono lasciati allo spettatore. Con una colonna sonora straniante ed una fotografia sontuosa, il regista napoletano ci offre la sua pellicola migliore, la più convincente e la più innovativa, regalandoci almeno due scene straordinarie: l’adunata della “corrente andreottiana” , girata come un western, ed un metaforico momento di vita privato: Andreotti e la moglie che guardano la televisione sul divano di casa, in silenzio e tenendosi per mano, sulle note de “I migliori anni della nostra vita” di Renato Zero. Il film ha avuto un notevole successo di pubblico e critica ed ha ricevuto numerosi riconoscimenti, tra cui il Premio della Giuria a Cannes, il Premio “SIAE” a Venezia, sette David di Donatello e una nomination tecnica (per il miglior trucco) agli Oscar 2010.

Voto:
voto: 4/5

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