martedì 27 gennaio 2015

I pugni in tasca (I pugni in tasca, 1965) di Marco Bellocchio

In una villa di campagna della provincia piacentina vivono una donna cieca ed i suoi quattro figli: Leone, ritardato ed epilettico, Sandro, narcisista affetto da disturbi mentali, Giulia, rimasta infantile e morbosamente legata a Sandro, ed Augusto, il solo apparentemente “normale”, per quanto mediocre, che aspira ad evadere dalla sua triste realtà familiare. Sandro, ossessionato da un disagio interiore sempre crescente, ucciderà la madre ed il fratello Leone, sotto gli occhi di Giulia che, spaventata, decide di non intervenire. Folgorante esordio cinematografico di Marco Bellocchio, con questo cupo dramma familiare, angosciante e dissacrante, che costituisce, a tutt’oggi, il suo capolavoro. Epocale ritratto in nero di una borghesia malata, allucinata, sospesa in un inferno quotidiano di perverso immobilismo, da cui traspare, evidente, quel disagio giovanile esistenziale, sociale e sessuale, che poi esploderà, qualche anno dopo, nelle proteste incendiarie del ’68. L’autore ci rappresenta, con asettica precisione, un disturbante microcosmo di provincia, metafora potente di una realtà sociale ormai compromessa, di una società non più in sintonia con le esigenze giovanili, inadatta a capirne i bisogni ed a fornirgli le risposte tanto attese. Bellocchio, con pungente cinismo, raffigura la ristrettezza culturale, il conformismo ipocrita, la mancanza di prospettive e la gretta staticità della provincia italiana, in cui si cela un malessere profondo, atavico, che non può più essere ignorato. Anche la Chiesa cattolica, raffigurata come uno strumento arcaico e bigotto di controllo morale, contribuisce a generare, e far perseverare, questo sistema di alienazione, che avvelena l’animo dei giovani come un cancro che rode dal di dentro. La dimensione patologica dei personaggi ed il loro evidente rifiuto della razionalità, diventa allegoria di ribellione, di attacco al potere, volto all’affermazione della propria individualità, del proprio diritto di vivere secondo la propria indole, liberandosi dalle trappole del conformismo di un modello sociale ormai vetusto. La famiglia senza padre, mostrata dal regista, è il simbolo evidente di quelle grandi trasformazioni di costume avvenute negli anni ’60, che misero in crisi il vecchio modello patriarcale, ormai non più consono rispetto ai cambiamenti epocali in corso ed alle nuove esigenze civili. Questo psicodramma sociale, spietato e disperato, è un atto d’accusa, un grido di dolore, una rivendicazione di diversità ed una richiesta di attenzione, che sconvolse buona parte della critica e causò accessi dibattiti nei salotti intellettuali. La sua indiscutibile azione di rottura fu paragonata, addirittura, a opere capitali come Ossessione di Visconti o  À bout de souffle di Godard. L’autore riprenderà questo discorso, quasi vent’anni dopo, cercando di chiudere idealmente il cerchio, con Gli occhi, la bocca (1982), che risulta però anacronistico, e quindi meno incisivo, rispetto alla nuova sensibilità degli anni ’80.

Voto:
voto: 4,5/5

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