martedì 27 settembre 2016

La pazza gioia (La pazza gioia, 2016) di Paolo Virzì

Villa Biondi è una comunità della campagna pistoiese per donne affette da problemi mentali e sottoposte a misure di custodia cautelare. Qui s’incontrano Beatrice, sedicente contessa logorroica dalla maniere affettate, e Donatella, giovane introversa piena di lividi e tatuaggi che nasconde traumi dolorosi. Nonostante le enormi differenze di carattere e di estrazione sociale, tra le due donne nascerà un’amicizia stravagante e sincera. Un giorno, sfruttando la scarsa organizzazione della struttura che le ospita, le due scapperanno per concedersi una folle “vacanza” all’insegna del divertimento, che ben presto si trasformerà in una dolente ricerca del proprio passato, tra colpi di testa e sensi di colpa. Intensa commedia drammatica di Virzì che, alternando il registro tragico a quello ironico, cuce addosso alle due bravissime protagoniste (Valeria Bruni Tedeschi e Micaela Ramazzotti) una vicenda tenera e appassionata tutta al femminile, che ci parla di depressione, di alienazione, di sociopatia, di amicizia e anche di come la fragilità psicologica sia un “peccato” intollerabile di fronte al cinismo del mondo dei così detti “normali”. Con una fotografia solare ed un ritmo agile, il regista livornese torna alla sua amata Toscana per questa storia “on the road” in cui si ride, si piange, si sorride e si riflette amaramente sulla triste condizione degli psicolabili, la cui sociopatia è solo la punta dell’iceberg di un malessere generale più profondo, di cui la stessa società si fa complice con la sua bieca indifferenza. A mano a mano che si scava nel passato delle due protagoniste, appare infatti evidente come i traumi infantili, l’assenza dei familiari e l’insensibilità del contesto sociale siano le evidenti concause della loro “follia”. L’autore punta il dito sull’imperfezione della natura umana e sulla crudeltà della vita, che non si ferma mai ad aspettare i più lenti o i più deboli nel suo veloce incedere quotidiano, e, con sguardo lucido e tenerezza compassionevole verso le sue “eroine”, descrive con lucida perizia il paradosso delle due “matte” che fuggono dalla comunità terapeutica per affrontare un “manicomio” ben più grande, quel mondo popolato da personaggi non meno “matti” di loro, ma ben protetti dalla franchigia della durezza d’animo. Tuttavia il regista toscano è anche bene attento a non scadere nell’elogio populista della “pazzia” (a meno di qualche piccolo scivolone finale nella retorica sentimentale), perché non disdegna altresì di tratteggiare i lati oscuri, le inconfessabili colpe e gli aspetti infimi della personalità di Beatrice e Donatella. Il nostro si riconferma narratore di razza, sensibile ed attento nei riguardi della società italiana contemporanea, lieve nel tocco e pungente nei contenuti, ultimo paladino della grande tradizione della Commedia all’italiana.

Voto:
voto: 4/5

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